- Il candidato unitario Kiliçdaroglu è stato scelto dopo una estenuante trattativa fra i partiti di opposizione.
- Il leader del Chp, noto come il “Gandhi turco”, è un politico d’esperienza che però si è specializzato nelle sconfitte elettorali.
- Il testo fa parte del nuovo numero di Scenari: “Globalizzazione inflazionata”, in edicola e in digitale da venerdì 24 marzo.
«Uniti vinceremo», urla Kemal Kılıçdaroğlu di fronte alla sede centrale del Chp. «Hak, hukuk, adalet», diritto, legge, giustizia, risponde la folla radunata ad Ankara.
Dopo una lunga querelle interna al cosiddetto Tavolo dei Sei, l’Alleanza nazionale turca ha finalmente un candidato da opporre al presidente Erdoğan nelle prossime elezioni presidenziali del 14 maggio.
Dal 2010 alla guida del Partito popolare repubblicano, il 74enne nato da famiglia musulmano-alevita e soprannominato da molti il “Ghandi turco”, era assurto agli onori della cronaca nel 2017, in occasione della marcia da Ankara a Istanbul contro il sistema giudiziario turco.
La sua nomina era stata messa in discussione nel corso di una quattro giorni di passione – dal 3 al 6 marzo – in cui l’opposizione si era dapprima sfaldata e poi ricomposta.
Pomo della discordia era stata la mancata approvazione del candidato da parte del secondo partito del “Tavolo dei Sei”, l’Iyi Parti di Meral Akşener, la lady di ferro turca.
La leader del partito nazionalista di destra, nato dalla scissione del Mhp di Devlet Bahceli – oggi al potere con Erdoğan – aveva espresso la sua contrarietà nei confronti di Kılıçdaroğlu, ritenendolo un candidato troppo debole da opporre al Presidente turco.
Se si guarda al passato politico del leader del Chp, non è effettivamente costellato di successi elettorali: sconfitto nel 2009 dal candidato Akp nelle comunali di Istanbul, nel 2011 e due volte nel 2015 nelle elezioni generali, nel 2017 nella battaglia per il referendum costituzionale e nel 2018 nelle prime presidenziali della storia del paese, dove sosteneva la candidatura di Muharrem Ince.
L’unico grande acuto era stato nel 2019, quando con il supporto dell’Iyi Parti era riuscito a strappare Istanbul e Ankara a Erdoğan facendo eleggere rispettivamente Ekrem Imamoğlu e Mansur Yavaş. Proprio i due sindaci del Chp, che godono di grande popolarità, erano stati invocati a gran voce da Akşener affinché si facessero avanti come candidati al posto di Kılıçdaroğlu.
Secondo i sondaggi, infatti, entrambi sarebbero stati in grado di spodestare l’attuale presidente. Tuttavia, la nomina di uno o dell’altro avrebbe immediatamente comportato la rimozione dalla carica di sindaco e la consegna del comune nelle mani dell’Akp.
Per di più, su Imamoğlu pesa ancora la condanna inflittagli lo scorso dicembre a due anni e sette mesi di carcere, per la quale si attende il ricorso, per insulti alla Commissione elettorale suprema, che nel 2019 aveva decretato l’invalidità delle elezioni municipali di Istanbul.
Akşener è dovuta quindi tornare sui suoi passi, riuscendo comunque ad ottenere una concessione che potrebbe rivelarsi decisiva per le sorti delle future presidenziali: in caso di vittoria dell’opposizione, Imamoğlu e Yavaş saranno nominati vicepresidenti, verosimilmente alla scadenza del loro mandato l’anno prossimo, fattore che potrebbe attirare su Kılıçdaroğlu i voti degli orfani dei due sindaci.
Con queste premesse il “Tavolo dei Sei” si è ricompattato attorno al suo candidato, una figura di compromesso che, nonostante le già citate debacle elettorali, ha saputo tenere unite le due anime del suo partito – quella nazionalista e quella social-democratica – operando importanti aperture anche verso l’elettorato islamico, in quella che è stata definita da molti come una svolta post kemalista.
La prima donna con il velo
Particolarmente rilevante, in tal senso, è stata l’apertura politica verso il velo negli uffici pubblici, sul quale il Chp aveva mantenuto tradizionalmente forti riserve e l’elezione, per la prima volta nella storia del partito, di una donna col velo, Sevgi Kılıç.
Le imminenti elezioni presidenziali saranno cruciali per il destino della Turchia, non solo per la simbolicità della ricorrenza, il centenario della Repubblica.
In ballo c’è la direzione che il paese prenderà tanto in politica interna quanto in politica estera. Il presidente Erdoğan aveva affermato lo scorso anno che quello che sarebbe venuto sarebbe stato il «secolo della Turchia».
In caso di rielezione, il leader dell’Akp ha promesso di portare il paese fra le prime dieci potenze mondiali, un obiettivo ambizioso da raggiungere in primo luogo con una nuova costituzione in grado di sostituire quella del 1982, frutto del golpe militare.
D’altro canto, l’opposizione ha manifestato la sua intenzione di riportare indietro le lancette della storia a prima del 2017, quando il popolo turco, un anno dopo il fallito golpe e in pieno stato d’emergenza, votò in favore del presidenzialismo.
Già nel 2018 il Chp si era battuto in campagna elettorale per ristabilire il parlamentarismo, limitando quindi notevolmente i poteri di cui gode il presidente. In caso di vittoria, l’opposizione ha anche promesso di difendere la libertà d’espressione dei media, la difesa dei diritti umani e la scarcerazione di dissidenti politici come Selhattin Demirtaş, ex leader dell’Hdp dietro le sbarre dal 2016.
Se in politica interna l’opposizione sostiene che la lotta sia fra la democrazia e la dittatura, in politica estera l’esito delle elezioni potrebbe essere rilevante, ma non rivoluzionario.
Il “Tavolo dei Sei” sostiene apertamente un riavvicinamento a Bruxelles, nel tentativo di rilanciare il dialogo sull’ingresso di Ankara nell’Ue, ma anche una revisione degli accordi sui migranti volto ad un’equa distribuzione basata sui principi del “burden sharing”.
Particolarmente rilevante è anche la volontà di non interferire negli affari interni dei paesi mediorientali, facilitando invece la risoluzione delle dispute regionali, un ruolo che la Turchia si era ritagliata sul finire degli anni Dieci grazie alla politica estera di Ahmet Davutoğlu, oggi, non a caso, uno dei leader dell’opposizione.
Nonostante ciò, le altre tradizionali direttrici di politica estera della Turchia degli ultimi anni, come l’equidistanza da Washington e Mosca, la difesa degli interessi nazionali nel mediterraneo orientale, l’integrità di Cipro nord e la volontà di giocare un ruolo di primo piano in Africa e Asia Centrale rimarranno invariate, a dimostrazione del fatto che il paese della mezzaluna è ormai un player di primo piano dell’arena internazionale.
Rimonta dell’opposizione?
Secondo diversi sondaggi, Kılıçdaroğlu sarebbe ad oggi in vantaggio sul presidente turco in un potenziale ballottaggio, con una differenza di almeno 6 punti percentuali che sembrava impossibile anche solo un mese fa, quando il leader del Chp veniva dato per sfavorito.
Sul ribaltamento di fronte potrebbe aver pesato sicuramente il ruolo attivo svolto dai due sindaci di Ankara e Istanbul: non a caso nella prima tappa della campagna elettorale Kılıçdaroğlu si è recato nelle zone terremotate insieme a Yavaş.
Ciò che sicuramente influirà in maniera decisiva sul voto sarà proprio la gestione delle aree colpite dal sisma, che ad oggi ha causato più di 45mila vittime.
Alcune settimane fa Erdoğan aveva ammesso indirettamente che il governo ha avuto problemi nell’invio degli aiuti, mentre alcune inchieste hanno fatto emergere tutte le difficoltà del ministero dell’interno nella gestione dell’Afad, l’Autorità per la gestione dei disastri e delle emergenze.
Ulteriormente decisivo potrebbe rivelarsi il voto dell’elettorato curdo e dell’Hdp, che ad oggi si è detto pronto al dialogo con l’opposizione, nonostante la presenza al tavolo di un partito di destra nazionalista come l’Iyi Parti.
Proprio il partito guidato dalla Akşener ha ribadito la sua contrarietà a concedere, in caso di vittoria, almeno un ministero al partito a base curda, fattore che potrebbe rallentare le trattative.
Attenzione, infine, agli sviluppi delle prossime settimane: sull’Hdp pesa infatti un’inchiesta aperta nel 2021 per presunti legami con l’organizzazione terroristica curda del Pkk.
Dopo il prossimo 11 aprile, data fissata per l’udienza, la corte costituzionale turca potrebbe decidere la chiusura del partito, il terzo più grande in parlamento.
Proprio a causa di questo rischio, negli ultimi giorni i suoi leader hanno deciso di partecipare alle prossime elezioni sotto l’ombrello del Partito verde di sinistra (Yeşil Sol Parti). Qualora l’Hdp dovesse venir chiuso e i suoi esponenti allontanati dalla vita politica, l’ago della bilancia potrebbe nuovamente pendere nei confronti di Erdoğan.
Qualunque sia l’esito delle elezioni, risulta chiaro che il prossimo maggio sarà decisivo per le sorti del paese della mezzaluna.
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