- Nel 2023 sette milioni di giovani elettori si recheranno alle urne per la prima volta. Le future elezioni potranno cambiare il volto al paese.
- La crisi economica e la gestione sbagliata della pandemia mettono in bilico le chances di Erdogan. A questo si aggiunge lo scontento della popolazione per la presenza di circa 3,6 milioni di rifugiati siriani oggi nel paese.
- Ma l’equilibrismo strategico mostrato dal leader turco può permettergli di riunire consensi e vincere ancora. Il testo fa parte del numero di Scenari: "La grande migrazione"
Cosa accadrà in Turchia alle prossime elezioni di giugno 2023? Cosa diverrà il paese fra un anno? Si tratta di una domanda dagli addentellati strategici per i decisori europei e tutti gli analisti geopolitici. Ma se lo chiedono innanzi tutto i giovani turchi: almeno 7 milioni di nuovi elettori voteranno alle presidenziali senza aver conosciuto null’altro che la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Si domandano gli esperti: esiste un’altra Turchia per loro?
Per il presidente che vuole incarnare la Turchia nuova, quella che lui ha costruito in questi vent’anni e più di potere, c’è un problema: i giovani non ricordano molto del primo decennio erdoganiano, quello della prosperità e della crescita esponenziale. Conoscono bene solo il secondo: quello della virata autoritaria (accentuatasi soprattutto dopo il fallito golpe del 2016) e della crisi economica attuale. Inoltre, come in tutti i paesi del mondo, anche in Turchia l’elettorato vota guardando soprattutto ai problemi interni e pone poca attenzione ai successi della politica estera turca, innegabili ma rilevanti solo per una élite minoritaria.
Potere contendibile
A un anno dalle elezioni l’impressione prevalente tra l’opinione pubblica è di imprevedibilità totale: nessuno o quasi si spinge a fare anticipazioni, salvo i tifosi dell’una o dell’altra parte. L’opposizione si sta organizzando e spera di avere una chance, cioè quell’occasione che le è sempre sfuggita dalla fine del secolo scorso. Ma nulla è certo in Turchia né si può facilmente scommettere su chi prevarrà.
Ciò che è sicuro è che ci saranno elezioni competitive: malgrado i suoi problemi la Turchia resta una democrazia dove il potere – come si dice – è contendibile. È questo un dato cruciale a cui gli occidentali, europei in primis, devono guardare con attenzione: Ankara non è simile a Mosca o a Pechino, come amano semplificare molti media e commentatori politici nostrani. La Turchia resta un paese in cui le elezioni possono determinare una svolta o l’alternanza.
Inoltre ciò non significa che con un altro governo si potrebbero cancellare d’un fiato tutti i contenziosi che oggi separano l’Europa dalla Turchia. Temi come la questione curda, il posizionamento e gli interessi divaricanti nel Mediterraneo, le relazioni con la Nato, l’equilibrismo nei rapporti con la Russia, l’influenza nel Caucaso o in medio oriente e così via, sono condivisi da un arco politico più ampio del partito islamo-conservatore Akp, attualmente al potere assieme ai suoi alleati di estrema destra (Mhp).
Ciò che probabilmente muterebbe sarebbe soltanto lo stile di governo e forse il metodo del dialogo. La posta in gioco attualmente è capire se i turchi hanno voglia di iniziare un terzo decennio con l’attuale presidente o preferiscono cambiare, anche se in quest’ultimo caso non tutto muterebbe di colpo.
Società in mutamento
La società turca è molto cambiata da quella degli anni Ottanta e Novanta, così come si sono trasformate le capacità di influire sullo scacchiere interno di interi ceti della nazione come l’esercito, l’islam ufficiale e la stessa collettività civile organizzata.
Mentre alla fine del secolo scorso il tema prevalente era una forte spinta alla speranza di ripresa dopo i decenni di violenza e di stagnazione economica, oggi è quello della lotta alla corruzione e alla disuguaglianza. Anche in Turchia la crescita esponenziale di questi vent’anni (sotto Erdogan il Pil turco è quadruplicato) ha provocato l’approfondirsi di un sentimento di ingiustizia e di rancore sociale verso un ceto affluente e arricchito in modi che molti ritengono iniqui se non immorali. Basta guardare le serie tv turche – di ottima qualità – per rendersene conto: raccontano di una società tradizionale e addormentata che si è improvvisamente risvegliata in nome di una operosità sostenuta dal credo religioso, ritrovando orgoglio e prosperità, ma oggi si ritrova più ingiusta e diseguale di due decenni fa e soprattutto più arrogante coi poveri, con gli ultimi, con i dimenticati dal progresso. Se poi la crisi economica arriva a cancellare anche quel po’ di benessere di cui tutti speravano di continuare a godere (il pane è aumentato del 50 per cento, l’olio dell’80, l’elettricità del 120 per cento e così via), il guaio è fatto.
Il presidente Erdogan, è cosciente di questi problemi e sta facendo di tutto per toccare il cuore dei nuovi elettori senza perdere quelli già acquisiti. In questi mesi la propaganda politica si sta rivolgendo quasi esclusivamente ai milioni di nuovi elettori che si recheranno alle urne nel 2023 per la prima volta: l’analisi che fanno gli spin doctor turchi è che la vittoria si giocherà su quanto i partiti saranno capaci di intercettarli. Il duello è aperto: non c’è alcuna garanzia che l’opposizione sia favorita in tale corsa affannosa.
La gara si svolge ovviamente sui social media, soprattutto su TikTok, provocando una scia di analisi sulle possibili manipolazioni esterne. Non solo le associazioni della società civile che contestano il potere ma anche, ad esempio, i giovani dell’Akp possiedono seguitissimi account. Intanto Erdogan ha già da tempo eseguito un altro dei suoi colpi da maestro, diminuendo l’età per diventare deputati dai 25 anni ai 18: nelle elezioni del 2018 il più giovane deputato della storia turca aveva 22 anni.
Ma i giovani turchi sono più europei di quanto si creda nella stessa Europa, e vivono le medesime sindromi dei loro coetanei occidentali: ad esempio tutti i sondaggi danno quasi il 60 per cento di giovani turchi – soprattutto ragazze – scettici sulla possibilità della politica e dei partiti (tutti) di migliorare il loro futuro. A ciò si aggiunge anche una certa rassegnazione nei confronti delle istituzioni, esattamente come in Europa. La sfida dunque è quella di portarli a votare, senza essere certi a chi andrebbe la loro preferenza.
Rifugiati siriani
A parte i giovani, c’è il grande problema della reazione popolare alla presenza dei circa 3,6 milioni di rifugiati siriani oggi in Turchia. Non ci sono quasi più campi e i siriani vivono dentro la società turca. Il governo ha fatto moltissimo per loro, costruendo nuovi quartieri, ospedali, scuole e così via, ma la popolazione non è contenta.
Malgrado la retorica sulla solidarietà islamica sunnita, i cittadini turchi criticano le aperture del governo e sono stanchi della politica delle frontiere aperte che Erdogan ha voluto per ragioni geopolitiche. In realtà, malgrado la prossimità religiosa, i tempi di integrazione degli arabi dentro la società turca sono più lunghi di quanto il governo si aspettasse: così il malumore è cresciuto e l’opposizione lo ha cavalcato.
Questo spiega le vittorie di quest’ultima nelle amministrative, soprattutto nelle grandi città come la stessa Istanbul, una volta feudo del presidente. Il sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu e il sindaco di Ankara Mansur Yavas sono entrambi dell’opposizione che ha preso la guida delle due città più grandi della Turchia: è tra loro, oltre a qualche altro astro nascente della politica turca, che si cela il probabile sfidante del leader turco nel 2023. Oltretutto la situazione dei rifugiati rischia di sfuggire di mano: dal 2021 si moltiplicano gli episodi di razzismo e violenza contro i siriani, fino all’assassinio.
Il governo ha dovuto fare un totale dietro front: si è passati da una politica di assimilazione e naturalizzazione dei siriani (con la non troppo recondita idea di annacquare i curdi nella loro area), al piano per il ritorno “volontario” dei rifugiati nel nord della Siria. Per questo deve essere presa sul serio la minaccia di invasione di un’altra striscia a nord, strappandola ai curdi del Rojava.
Il nuovo programma è far rientrare nella loro patria quanti più siriani possibile. Il problema è che l’area di Idlib che i turchi già controllano non è sufficiente: da una parte è troppo piccola, dall’altra i siriani filo-turchi sono in lotta fra loro (jihadisti di Hts ex al Qaeda contro lo Fsa, l’esercito di liberazione siriano). La resistenza del Ypg curdo a tale disegno è talmente forte da riavvicinare il Rojava al governo siriano e alle milizie iraniane che non vedono di buon occhio un’ulteriore spinta turca nella regione.
I curdi sono politicamente forti anche in Turchia. Il Partito democratico dei popoli (Hdp) nel 2018 era diventato la terza forza politica del paese pur essendo ora bandito dalla vita politica. Indebolito dall’incarcerazione di almeno 5mila dei suoi quadri, teme di essere messo al bando a ridosso delle prossime elezioni, in modo da non potersi riorganizzare in tempo. Ecco perché i sostenitori dell’Hdp il 21 marzo scorso, in occasione del capodanno curdo Newroz, hanno riunito quasi un milione di persone a Diyarbakir. La festa tradizionale si è trasformata in una dimostrazione di sostegno al partito dei curdi con conseguente repressione poliziesca.
Quadro complesso
La crisi economica, la pandemia e infine la guerra in Ucraina sono venute a complicare un quadro geopoliticamente già intricato. In questi ultimi dieci anni la Turchia ha perso molti dei suoi amici occidentali e la gente inizia a percepirne gli effetti. Ai cittadini turchi non basta sapere che sono ben accolti in Russia o nei paesi del Golfo: i loro gusti e stili di vita sono simili a quelli occidentali, con un processo di avvicinamento iniziato già da molti anni. La propaganda anti occidentale del governo ha i suoi limiti: un conto è il recupero dell’orgoglio nazionale, un altro è l’allontanamento verso oriente.
I turchi vogliono essere trattati alla pari dall’occidente ma rimanere dentro lo stesso universo, soprattutto ora che il mondo si deglobalizza e tende a ridividersi in due blocchi: the west and the rest.
Anche nel campo del settore privato e degli economisti turchi non piace la direzione che ha preso il paese in questi ultimi tempi, come ad esempio il fatto che dal 2018 la banca centrale di Turchia obbedisca direttamente alle istruzioni del presidente. Il mantenimento del tasso d’interesse di riferimento della Banca ben al di sotto dell’inflazione, allo scopo di promuovere la crescita grazie ai crediti concessi dalle banche pubbliche, ha aumentato il deficit corrente e quello pubblico finanziato dal debito. I più anziani riconoscono una situazione già vista: il circolo vizioso “inflazione-svalutazione-debito” da cui il paese era uscito soltanto all’inizio del 2000, per l’appunto con l’avvento al governo del Akp. Lo scetticismo e la fuga degli investitori esteri fa il resto, favorendo una strisciante dollarizzazione dell’economia.
Astuto equilibrismo
Per recuperare terreno il leader turco sta aprendo una nuova e complessa fase di politica estera che spera possa favorire anche la ripresa economica del paese. Dopo aver sostenuto il Qatar nella sua diatriba contro l’Arabia Saudita, gli Emirati e il resto del Golfo (ciò che comunque ha permesso all’esercito turco di tornare con una sua base nella penisola arabica da cui era stato cacciato durante la Prima guerra mondiale), in seguito Erdogan si è applicato alla ricucitura e si è riavvicinato a Israele sulla spinta degli Accordi di Abramo.
Si tratta di una nuova svolta: la Turchia non vuole restare isolata mentre sta nascendo quella che alcuni osservatori già chiamano la “Nato del medio oriente”: un’alleanza militare tra Israele, Emirati e altri stati dell’area (tra cui la Giordania e l’Egitto) che sta ridisegnando in funzione anti-iraniana la carta strategica dell’area. Ancora una volta Ankara prova un astuto equilibrismo: da una parte continua a cooperare con Russia e Iran per la stabilità della Siria e la fuoriuscita dal conflitto mediante il processo di Astana. Dall’altra si riavvicina a Israele ed Egitto che certo non favoriscono l’asse sciita (Iran-Siria-Libano).
Il capo dello stato turco ha effettuato la sua prima visita ufficiale ad Abu Dhabi dopo dieci anni di interruzione di rapporti, una missione in cui ha firmato tredici accordi di cooperazione con l’obiettivo di attrarre capitali dai paesi del Golfo. La stessa improvvisa decisione di chiudere l’affaire Jamal Khashoggi (il giornalista e oppositore saudita ucciso e smembrato all’interno del consolato saudita di Istanbul nel 2018) va in tale direzione: tendere una mano a Riad e riprendere le relazioni con il Golfo per ottenerne aiuti finanziari in un momento difficile.
A fianco di tali decisioni, solo parzialmente sorprendenti, c’è anche quella di riavvicinarsi all’Unione europea dopo anni di freddezza. È chiaro che Erdogan sembra cogliere nella guerra in Ucraina una buona opportunità politica, collocarsi tra le due parti in conflitto in modo relativamente bilanciato al fine di ottenere tutti i vantaggi possibili. Si tratta di un posizionamento che piazza la Turchia al centro del gioco geopolitico, come si è visto al vertice Nato di Madrid in cui Ankara ha giocato un ruolo decisivo per l’adesione di Finlandia e Svezia all’organizzazione atlantica. Forte del principio di voto all’unanimità, Erdogan ha ottenuto l’impensabile: garanzie – soprattutto svedesi – sull’estradizione di curdi rifugiati in quei paesi, accusati di appartenere al Pkk che i turchi (ma anche l’Ue) considerano un’organizzazione terroristica.
La gestione della pandemia
Un altro cruccio per il presidente è il fatto che non si placa la polemica interna sulla gestione della pandemia da Covid-19 che ha minato la fiducia nel governo a causa delle carenze percepite e verificate, tanto che Erdogan si è recentemente “scusato” con i turchi che hanno dovuto affrontare difficoltà finanziarie a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia e la conseguente recessione economica.
La pandemia ha esacerbato una crisi che aveva già colpito duramente i ceti urbani e quelli intermedi, la maggior parte dei quali sono elettori dell’Akp. Molti cittadini ritengono che l’amministrazione abbia gestito male la pandemia sia dal punto di vista medico che economico. Sebbene la Turchia sia stata risparmiata dai disastri avvenuti in altri paesi, come il Brasile o l’India, il numero di casi è stato comunque troppo alto e le campagne di vaccinazione davvero carenti.
Secondo dati nazionali, la Turchia è riuscita finora a vaccinare circa il 60 per cento della popolazione con due dosi (dati ufficiali), ma non c’è stato un buon approvvigionamento di vaccini proveniente da più fonti. Viene criticata l’eccessiva dipendenza dal vaccino cinese Sinovac le cui performance non sono state valutate positivamente nemmeno in Cina. La società ha reagito male alla gestione istituzionale della crisi, con molti suicidi e numerosi fallimenti delle piccole imprese. Le misure socio-sanitarie prese dal governo contro il Covid sono tuttora considerate da molti insufficienti, scientificamente mal pianificate e applicate in modo selettivo. Come conseguenza il tasso di disoccupazione è salito in tutto il paese.
Solo nel primo trimestre del 2021 circa 29mila imprese hanno chiuso i battenti, con un aumento dell’11 per cento rispetto allo stesso periodo del 2020. I grandi raduni pro-governativi e altri eventi massivi di propaganda non sono stati cancellati, provocando l’indignazione dell’associazione medica nazionale. L’accusa prevalente è che il governo abbia offerto un’assistenza sociale limitata senza tenere conto dell’aumento della precarietà e della disoccupazione proprio nella low middle income class, cioè – come detto – la gran parte degli elettori dell’Akp.
I sindaci dell’opposizione hanno fatto di tutto per compensare le carenze dei servizi pubblici nazionali e ciò ha aumentato la loro popolarità. Le famiglie più povere sono ovviamente state tra le più colpite tanto che all’inizio di quest’anno il presidente ha deciso un aumento drastico del salario minimo (passato da 2.825 a 4.250 lire turche, circa 250 euro) ma la misura non è stata sufficiente a migliorare significativamente le condizioni di vita di una popolazione già allo stremo.
Tutti questi problemi rendono incerta la corsa elettorale del 2023. Certamente manca ancora molto tempo e tutto è ancora possibile ma una cosa è certa: chiunque esca vincitore dalla contesa elettorale si troverà a dover gestire un paese radicalmente cambiato e non più docile come in passato.
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