La Turchia vuole costruire nuovi caccia ed elicotteri d’assalto senza aiuti esterni per poterli vendere più liberamente a dittature e stati in guerra, ma i nuovi velivoli sono pieni di componenti stranieri. Compresi quelli italiani.
I droni turchi sono ormai famosi in tutto il mondo, soprattutto dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. Prodotto di punta dell’industria bellica della Turchia, i velivoli senza pilota di Ankara sono già stati acquistati da vari governi in Africa, Asia e Medio oriente e la lista dei paesi interessati continua ad allungarsi. Ma la Turchia non produce solo droni.
L’industria bellica è in forte espansione grazie agli investimenti del presidente Recep Tayyip Erdogan, che punta a rendere il settore militare il più possibile indipendente dalle importazioni estere. L’obiettivo è realizzare armi e armamenti autoctoni, costruiti cioè con componenti e tecnologie turche per evitare che nuovi embarghi possano compromettere la crescita della Difesa turca e per esportare in libertà i propri prodotti a paesi autoritari o in conflitto.
In teoria Ankara ha già tre jet (l’Hurkus, l’Hurjet e il TF-X) e un elicottero d’attacco (Atak-2) autoctoni, ma questi velivoli non potrebbero esistere senza il contributo di altri paesi. L’Italia è uno di questi.
I velivoli turchi
L’Hurkus e l’Hurjet sono entrambi due velivoli addestratori. Il primo, già in dotazione all’aviazione turca, è progettato come addestratore di nuova generazione e jet da ricognizione e attacco leggero e può essere armato con missili anticarro, razzi Cirit, bombe e mitragliatrici. L’Hurjet invece è ancora in fase di test, ma dovrebbe entrare in servizio entro il 2025 per essere impiegato per l’addestramento dei piloti destinati al futuro jet da combattimento di quinta generazione della Turchia, il TF-X.
Quest’ultimo, a sua volta, è stato pensato per sostituire gli F-16 americani e sopperire alla mancanza degli F-35 dopo l’esclusione della Turchia dal progetto dei caccia Usa di ultima generazione. Il jet deve ancora essere sottoposto a diversi test prima di diventare effettivamente operativo, ma è progettato per servire l’aviazione turca fino al 2070. Alla lista degli investimenti turchi in Difesa va aggiunto anche l’elicottero d’attacco Atak-2, nuovo capitolo del programma Atak dell’agenzia nazionale Tai che, con il contributo dell’italiana Leonardo, ha già dato cita al T129.
Tutti questi velivoli sono stati presentati dalla Turchia come la prova dell’avanzamento e dell’indipendenza dell’industria della difesa nazionale, ma al loro interno sono presenti diverse componenti straniere, comprese quelle italiane. La lista delle aziende è abbastanza lunga.
Jointek, Leonardo, Mecaer aviation group, Microtecnica, Seconda mona e Glenair Italia hanno esportato componenti per l’Hurkus, mentre Microtecnica, Magnaghi aeronautica e Avio sono coinvolte nel progetto dell’Hurjet. Leonardo inoltre ha venduto alla Turchia i lanciatori per i missili Cirit dell’Hurkus, con la Glenair che ha invece fornito i micro-connettori. Guardando al TF-X e all’Atak-2 l’elenco per il momento è più breve: negli ultimi due anni solo Microtecnica, Seconda mona e Magnaghi aeronautica hanno fornito componentistica per il jet turco, mentre Microtecnica e Sfk Industries sono parte del progetto dell’elicottero d’assalto.
L’export
Tutti questi velivoli sono pensati per rafforzare le capacità militari della Turchia e saranno quindi impiegati anche nelle operazioni che Ankara lancia regolarmente contro il Partito dei lavoratori curdo, considerato dal governo un’organizzazione terroristica. In questi attacchi, che coinvolgono anche il nord-est dell’Iraq, rimangono spesso coinvolti civili innocenti, come documentato da diverse Ong internazionali. L’elicottero Atak 129 è stato il velivolo più usato per portare avanti queste operazioni e il suo successore dell’Atak-2 è pensato per lo stesso impiego. Con risultati, sperano ad Ankara, ancora più letali.
Ma gli aspetti problematici del coinvolgimento italiano nella produzione dei futuri velivoli turchi riguardano anche l’esportazione. L'Hurkus è stato venduto dalla Turchia al Ciad, al Niger e alla Libia, tutti e tre paesi che o si trovano in stato di conflitto o sono guidati da dittature militari. Ankara poi punta ad aumentare l'export verso l'Africa, Medio oriente e Asia centrale, tutte aree del mondo instabili e soggette a conflitti interni.
L’Italia dunque continua a guadagnare dagli investimenti in difesa della Turchia e a migliorare le capacità militari di un governo sempre più oppressivo, coinvolto militarmente in Siria e Iraq del nord e che minaccia a più riprese l’Europa.
© Riproduzione riservata