Vivere da immigrato o da rifugiato nel paese anatolico vuole dire fare i conti con l’assenza di assistenza, di diritti e di sicurezza per il futuro, nonostante i fondi forniti dall’Ue. Mentre la xenofobia cresce, in molti continuano a sognare l’Europa
- Vivere da immigrato o da rifugiato nel paese anatolico vuole dire fare i conti con l’assenza di assistenza, di diritti e di sicurezza per il futuro, nonostante i fondi forniti dall’Unione europea alla Turchia.
- Il sentimento xenofobo della popolazione locale è in crescita, alimentato da una parte della classe politica e dai media che addossano ai migranti la colpa della crisi economica che il paese vive da anni.
- Per molti la soluzione è raggiungere l’Europa, ma se la Turchia lascia aperto qualche spiraglio dalla Grecia si viene rimandati indietro dopo essere stati picchiati e privati di tutto, anche dei vestiti.
Sui tabelloni luminosi dei cambiavalute del centro di Istanbul il numero 18 segna il valore della lira turca rispetto all’euro, ogni mese più basso a causa della continua svalutazione della moneta locale. Una crescita, quella del tasso di cambio tra le due valute, che pesa sulla vita di tutti i giorni dei cittadini turchi, costretti a fare i conti con il rincaro dei prezzi e con l’incremento esorbitante del costo degli affitti.
Alla base dell’aumento dell’inflazione vi sono le politiche monetarie imposte negli ultimi anni dal presidente Recep Tayyip Erdoğan, ma la colpa della crisi è da tempo attribuita da politici e mezzi di comunicazione ai migranti e ai rifugiati che vivono nel paese. Diventati oggetto di campagna elettorale e capro espiatorio dei mali della Turchia.
Rifugiati e fondi Ue
«Nei media si dice in continuazione che siamo poveri, che rubiamo il lavoro e che siamo solo degli ospiti provvisori. Io dopo quasi cinque anni sono anche riuscita a ottenere la cittadinanza, ma non mi sento sicura qui». A parlare è Myriam, una ragazza siriana rifugiatasi in Turchia dopo lo scoppio della guerra e che ha da poco aperto un’attività nel centro di Istanbul. Per motivi di sicurezza preferisce non usare il suo vero nome. «Ho tutti i documenti in regola, ma vivere qui da siriana è difficile. Il governo ha anche iniziato a rimpatriare le persone con la forza, è successo anche ad alcuni miei amici. Altri invece siamo riusciti a mandarli in Iraq. Lì la situazione è migliore che in Siria».
Nel paese anatolico vivono circa quattro milioni di rifugiati siriani, per la cui gestione la Turchia ha ricevuto dall’Ue sei miliardi di euro, ai quali sono stati aggiunti a luglio del 2022 altri 50 milioni. Sul loro corretto utilizzo, però, sono sorti da tempo dei dubbi, come affermato anche dalla Tarlabaşı Solidarity Group. I fondi Ue non sarebbero del tutto utilizzati per progetti di assistenza ai rifugiati, con un conseguente dispendio di denaro pubblico europeo e a danno di chi, anziché essere aiutato, finisce con l’essere trattato come una fonte di guadagno da soggetti vicini al presidente.
Criticare apertamente il governo e la gestione del dossier migratorio, però, non è possibile. Farlo vuol dire avere problemi con la giustizia o vedere i propri fondi improvvisamente decurtati nel caso delle Ong. Il silenzio o le risposte di circostanza sono frequenti quando si chiede un parere sulla gestione dei rifugiati nel paese a chi è in qualche modo legato alle istituzioni.
Una vita precaria
Eppure sulla carta le protezioni e i servizi offerti ai siriani dovrebbero garantire loro una vita dignitosa in Turchia, fatta di lavoro, assistenza sanitaria e accesso all’istruzione, secondo quanto stabilito dagli accordi con l’Unione. La realtà però è ben diversa. «Da alcuni anni non ci è più consentito spostarci all’interno del paese, ma non in tutte le città si ha la possibilità di lavorare. In molti trovano un lavoro in nero in un posto diverso da quello in cui risiedono ufficialmente, il che vuol dire dover vivere nascosti, senza i documenti in regola e con la paura di essere rispediti in Siria», continua ancora Myriam. Anche lei, nonostante una laurea e il turco fluente ha dovuto rivolgersi al mercato del lavoro nero per un periodo. A dimostrazione delle falle nel sistema di accoglienza dei rifugiati messo in piedi in Turchia.
Ma i siriani non sono gli unici ad avere problemi, anzi. Le condizioni in cui versano afgani e pakistani sono ben peggiori. Se nel caso dei rifugiati provenienti dalla Siria si parla di cattiva gestione, in quello degli altri migranti il problema molto più semplicemente non esiste. Chi arriva da paesi mediorientali diversi dalla Siria o dal continente asiatico non ha diritto ad alcun tipo di tutela, finendo con l’essere sfruttato e con il vivere in condizioni particolarmente precarie.
«Quando sono arrivato a Istanbul facevo il toplayıcılar, il raccoglitore illegale di rifiuti, come tanti altri immigrati. Guadagnavo poco, ma non dovevo pagare l’affitto. Dormivo nello stesso posto in cui lavoravo, nel quartiere periferico di Sultanbeyli». Kerem, che preferisce non usare il proprio nome, racconta la sua storia seduto su un materasso su cui sono impilate diverse coperte, unico rimedio contro il freddo di Istanbul. «Noi migranti siamo impiegati per lo più nei cantieri o in altri lavori pesanti a cui hai accesso grazie al tuo giro di conoscenze. In alcuni casi però devi pagare degli intermediari per essere sicuro di continuare a lavorare in quel posto. In città siamo più organizzati, ma in campagna le spese per le commissioni sono maggiori». La certezza del pagamento però non esiste e rivolgersi alle autorità in caso di problemi non è un’opzione.
La precarietà lavorativa e l’assenza di documenti limitano anche l’accesso a un’abitazione dignitosa. Il piccolo appartamento che Kerem divide con altri immigrati provenienti come lui dal Pakistan o dall’Afghanistan non ha riscaldamento e la cucina è composta da un fornello da campo e da qualche mobile. Tutto quello che lui e gli altri inquilini possono offrire sono frutta e biscotti confezionati, oltre a una tazza di tè. «Anche fare la spesa è un rischio», continua Kerem, che tocca a stento il cibo che ha davanti. «Di solito affidiamo questo incarico a chi di noi ha i documenti in regola, altrimenti andiamo in qualche negozio qui vicino la notte per evitare di essere fermati. I controlli negli ultimi anni si sono intensificati».
Cattiva gestione
Essere fermati dalla polizia vuol dire finire in uno dei vari centri di espulsione presenti nel paese, lontano dalla propria rete di contatti e senza avere accesso all’assistenza legale. «Per rimandarti nel tuo paese devono prenderti le impronte e farti firmare dei documenti. Ci hanno provato anche con me dicendo che se avessi firmato mi avrebbero lasciato andare, ma sapevo che non era così. Dopo qualche mese mi hanno rilasciato». Questo stesso schema è usato anche per rimpatriare i siriani, ma è più spesso impiegato contro quei migranti ignorati dall’opinione pubblica internazionale, come asiatici e africani.
Anche questi ultimi arrivano spesso illegalmente nel paese, finendo nello stesso sistema di sfruttamento e precarietà dei pakistani, ma persino chi ha i documenti in regola subisce un trattamento discriminatorio da parte delle autorità. Ennesimo capitolo di una storia di cattiva gestione del dossier migratorio da parte del governo. «Quando vai dall’Immigrazione per il rinnovo dei documenti non ricevi risposte e se insisti ti minacciano di chiamare la polizia e di farti deportare», spiega Ajani, che a Istanbul gestisce un ristorante africano insieme alla moglie. «A quel punto sei costretto a stare in casa e a uscire solo per lavorare, ma se ti fermano ti portano in un centro per il rimpatrio per chissà quanto tempo. Alcuni amici sono rimasti dentro mesi, altri solo una settimana. Dipende da quanto sei fortunato. Nessuno sa come funziona il sistema».
I confini
La mancanza di certezze e la paura costante di essere deportato o di finire vittima del sentimento xenofobo crescente spinge ancora molti a lasciare il paese. Secondo l’accordo siglato tra Ue e Turchia, il governo turco è tenuto a bloccare le partenze verso il vecchio continente, ma i confini sono più porosi di quello che si racconta. Almeno dalla parte turca.
«Le guardie di frontiera qui mi hanno lasciato passare, minacciandomi però di non tornare indietro», racconta Kerem, che ha cercato per quattro volte di raggiungere l’Europa. «È la polizia greca il problema. Quando ti fermano ti picchiano, ti tolgono tutto quello che hai addosso, vestiti compresi, e ti respingono». Una dinamica confermata anche da Ajani, che ha visto diversi suoi amici rimandati indietro dopo essere stati vessati dalle guardie greche. Nonostante ciò, per molti di loro raggiungere l’Europa resta l’unico modo per avere una vita migliore e per lasciarsi alle spalle un paese in cui non hanno un futuro.
La Turchia si è trasformata negli anni in un limbo in cui migranti e rifugiati restano intrappolati a lungo, tra burocrazia poco chiara, servizi di assistenza che non funzionano, sfruttamento e con la paura di morire nel tentativo di attraversare i confini. Quegli stessi confini che Erdoğan minaccia di aprire quando vuole ricattare l’Ue ed entro i quali si consuma la vita di uomini e donne privi di tutele, di diritti e abbandonati spesso a sé stessi, moderni schiavi di un sistema di sfruttamento lavorativo senza il quale la Turchia di oggi non sarebbe più in grado di crescere.
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