Nell’entourage presidenziale ci si preoccupa che la guerra tra Israele e Hamas e il conflitto in Ucraina stiano tracciando uno scenario troppo simile al 1979 di Jimmy Carter, dove l’allora presidente apparve come troppo debole e indeciso. Per Biden la situazione è diversa, ma l’esito potrebbe essere lo stesso, con l’avvento di un trumpismo duraturo come il neoliberismo reaganiano
Non c’è solo la potenziale rielezione di Donald Trump alla presidenza nel 2024 a tormentare gli strateghi democratici, che sempre più temono la sconfitta del presidente uscente Joe Biden.
Ci sono anche una serie di fattori che ricordano in modo sinistro quanto passato da Jimmy Carter l’anno precedente alla sua disastrosa sconfitta contro l’avversario repubblicano Ronald Reagan 1980, un evento ben presente nell’immaginario catastrofico dei progressisti americani. Anche se la presidenza di Carter è stata rivalutata negli ultimi anni, soprattutto per la sua attenzione alla questione climatica e per la difesa dei diritti umani nel mondo, lo spettro della sua disfatta politica, che ha aperto le porte a una lunga era dominata dal conservatorismo neoliberista, è ancora visto con il terrore che si possa ripresentare.
Le condizioni interne ed esterne che deve affrontare Joe Biden, infatti, somigliano molto a quelle del 1979. Oggi come allora, c’è un problema con l’Iran, che all’epoca aveva appena cacciato lo Shah Mohammed Reza Pahlavi, un alleato americano che lo stesso presidente aveva definito poco tempo prima «un’isola di stabilità».
Oggi invece il regime degli Ayatollah, all’epoca soltanto un’ipotesi, è ben consolidato e attivo nel sostenere, più o meno attivamente, gruppi estremisti come Hamas nella Striscia di Gaza ed Hezbollah in Libano. All’epoca, inoltre, il 27 dicembre 1979 ci fu un colpo di Stato spalleggiato dall’Unione Sovietica in Afghanistan, che sostituì il presidente comunista non allineato Hafizullah Amin con Babrak Karmal, fedele a Mosca, dando inizio a un lungo conflitto che portò a innalzare il livello dello scontro tra le due superpotenze della Guerra Fredda.
Oggi siamo quasi al secondo anno di un altro conflitto iniziato dalla Federazione Russa, che per molti ricorda nell’ideologia nazionalista l’Urss degli ultimi anni, nel territorio dell’Ucraina. Ci sono delle evidenti differenze, ma in entrambi i casi c’è una fornitura d’armi attiva alle forze che combattono contro gli occupanti da parte degli Stati Uniti. In nessuno dei due casi però si vede una rapida fine del conflitto. E la linea scelta da Joe Biden di sostegno a un alleato tradizionale come Israele, dopo un lungo periodo di freddezza dovuto alle tentazioni illiberali del premier Benjamin Netanyahu, rischia di far perdere un pezzo importante della coalizione che ha portato l’attuale inquilino della Casa Bianca a vincere nel 2020.
Insomma, una sottile linea che si potrebbe spezzare: ad esempio nel caso della morte di alcuni degli ostaggi americani detenuti da Hamas, uno scenario che ricorderebbe il fiasco dell’operazione voluta da Jimmy Carter di liberare i prigionieri all’interno della fu ambasciata americana invasa dai militanti khomeinisti.
Sindacati e sfidanti
Ad aggravare questi timori c’è anche la retorica presidenziale che punta molto su un’immagine tradizionale dell’America quale tutrice dell’ordine internazionale contro potenze autocratiche e movimenti estremisti, uniti come un tutt’uno anche con l’aiuto di alcuni salti logici, come nel discorso tenuto da Joe Biden all’indomani della visita in Israele lo scorso 19 ottobre.
Ci sono diversi problemi in questo approccio, come la stanchezza degli elettori che hanno invece un profondo desiderio di combattere le conseguenze dell’inflazione degli scorsi mesi, che pur se tornata sotto controllo, continua ad erodere i redditi delle famiglie. Ed ecco che il sostegno militare ai due alleati, anzi tre se includiamo Taiwan minacciata dalla Cina comunista, diventa un’occasione per fornire commesse alle fabbriche militari del territorio americano e fornire lavori ben pagati e magari sindacalizzati.
E a proposito di sindacati, forse l’accordo trovato dallo United Auto Workers con General Motors, l’ultimo dei grandi gruppi che ancora opponeva resistenza alle ragioni degli scioperanti, può fornire ossigeno a una presidenza in affanno. Oltretutto, c’è anche un altro punto debole per il presidente: il deputato del Minnesota Dean Phillips ha scelto di sfidarlo alle primarie, primo serio avversario di una corsa che da parte dem si voleva incentrata sulla minaccia trumpiana.
Eppure, Phillips, a parte un vago moderatismo, non propone niente di straordinario, se non mettere il dito nella piaga che è la veneranda età del presidente, che a fine di un secondo mandato avrebbe ben 86 anni. Una serie di crisi che può essere anche superata, qualora vada tutto per il verso giusto, anche se Biden, così come Carter, certo non può controllare quanto avviene fuori dai confini americani. Argomento che però non fa molta presa con un elettorato sempre più scettico nei suoi confronti.
© Riproduzione riservata