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Un nuovo dossier di prove è stato sottomesso alla Corte penale internazionale affinché indaghi su accuse di genocidio e crimini contro l’umanità commessi nei confronti della minoranza uigura da parte delle autorità cinesi.
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Il materiale probatorio è stato presentato all’ufficio del Procuratore dell’Aja che ora dovrà valutare se aprire o meno un’indagine nei confronti di Pechino. Si tratta del terzo faldone sottoposto al vaglio della Corte internazionale da parte del gruppo di avvocati guidati da Rodney Dixon che stanno lavorando su commissione del governo dell’est Turkestan in esilio basato a Washington.
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Per Rodney Dixon e i suoi colleghi la sfida principale è fornire abbastanza prove da convincere la Corte penale internazionale ad aprire un fascicolo d’indagine contro la Cina. Ma le difficoltà non sono poche. Pechino, infatti, non è tra i firmatari del trattato di Roma del 1998 con il quale è stato istituita la Corte penale internazionale, di conseguenza non aderisce al suo statuto e perciò non può essere perseguita penalmente dall’Aja.
Un nuovo dossier di prove è stato sottomesso alla Corte penale internazionale affinché indaghi su accuse di genocidio e crimini contro l’umanità commessi nei confronti della minoranza uigura da parte delle autorità cinesi.
Il materiale probatorio è stato presentato all’ufficio del Procuratore dell’Aja che ora dovrà valutare se aprire o meno un’indagine nei confronti di Pechino. Si tratta del terzo faldone sottoposto al vaglio della Corte internazionale da parte del gruppo di avvocati guidati da Rodney Dixon che stanno lavorando su commissione del governo dell’est Turkestan in esilio basato a Washington.
«Questo dossier contiene le prove su come la cooperazione tra il governo tagiko e quello cinese abbia facilitato una deportazione di massa verso Pechino. Parliamo di circa tremila uiguri che una volta trasferiti vengono internati nei campi di rieducazione e nelle fabbriche. Le prove presentate rafforzano l’intero impianto accusatorio», dice Mamtimin Ala rappresentante a Bruxelles del governo dell’est Turkestan in esilio.
Il suo governo non ha ottenuto alcun tipo di riconoscimento da parte degli altri stati ma rappresenta la diaspora uigura all’estero che conta una popolazione di cinque milioni di abitanti. L’etnia uigura è turcofona e prevalentemente di religione islamica e la maggior parte di loro vive nello Xinjiang (chiamato est Turkestan dalla minoranza che rifiuta la toponomastica coloniale), una vasta area, sede di numerose industrie, situata nel nord ovest della Cina. Nella regione, e nella capitale Urumqi, le autorità di Pechino hanno imposto un controllo serrato nei confronti della popolazione locale camuffato da misure di contrasto al terrorismo e alla radicalizzazione. In realtà, è una strategia messa in atto da Xi Jinping e dai suoi predecessori che mira a spegnere ogni istanza separatista nell’area che risulterebbe fatale per Pechino.
Infatti, la Road and Belt initiative (La nuova via della seta), ovvero la rete infrastrutturale di comunicazione commerciale tra la Cina e l’Europa, passa soprattutto per lo Xinjiang dove ci sono dei nodi centrali e indispensabili. Qui, il territorio è anche attraversato da uno dei gasdotti più importanti del paese capace di trasportare nel paese 47.9 miliardi di metri di cubi di gas nel 2019.
La metodologia
Il nuovo dossier inviato all’Aja fornisce ulteriori prove sul sistema ideato dalle autorità cinesi per individuare e poi «deportare» nel paese gli uiguri presenti in Tagikistan e negli stati dell’Asia centrale (tra anche Kirghizistan, Kazakistan e Uzbekistan).
Il pool di avvocati, attraverso testimonianze e interviste, ha scoperto che i servizi di sicurezza di Pechino utilizzano metodi diversi per raggiungere il proprio obiettivo. Il primo è basato sullo sfruttamento dei legami famigliari. Ciò significa che gli uiguri residenti all’estero ricevono chiamate da parte dei propri cari che gli chiedono di tornare perché minacciati.
Emblematico è il caso di un cittadino di etnia uigura residente in Kirghizistan che un giorno riceve una chiamata da parte di sua figlia che vive in Cina, la quale gli dice che le autorità non le permettono di sposarsi fino a quando non sarebbe ritornato. Nonostante conscio dei pericoli il padre decide di prendere un taxi e rientrare a casa, ma una volta arrivato al confine è stato arrestato dalla polizia cinese alla frontiera. Di casi simili ce ne sono a dozzine secondo Rodney Dixon che le ha catalogate nel dossier probatorio.
Il secondo metodo utilizzato per la deportazione è più subdolo e violento. Si serve delle autorità consolari cinesi che operano nel Tagikistan. Spesso accade che di proposito il personale diplomatico ritarda l’emissione di pratiche burocratiche come visti e permessi di lavoro, per poi servirsi della polizia tagika per fare irruzioni nelle case e nei posti di lavoro della minoranza turcofona e individuare chi risiede nel paese con documenti irregolari. Una volta presi in custodia vengono trasferiti in Cina a gruppi limitati di una decina di persone, per evitare di attirare l’attenzione della comunità internazionale.
Chi non rientra in questi casi, invece, si trova stretto tra le maglie dell’apparato della sicurezza di Pechino costretto a lavorare come informatore per il consolato. «Gli informatori ti guardano. Sanno dove vai, cosa compri, come preghi e inviano messaggi in Cina su di te» dice una fonte citata in anonimato dai legali. In cambio del servizio di spionaggio gli informatori ricevono trattamenti di favore di basso livello come ad esempio il mancato pagamento delle tasse sui passaporti o al passaggio del confine.
Tutto questo accade con la complicità delle istituzioni tagike che sono sottomesse, soprattutto per motivi commerciali, al potere del Dragone. A valorizzare le prove raccolte c’è anche un dato statistico: negli ultimi quindici anni il numero di uiguri che vivono nel confinante Tagikistan, secondo una stima provvisoria, è diminuito dell’85 per cento. Una riduzione che è avvenuta in gran parte negli anni a cavallo tra il 2016 e il 2018.
Il nodo della giurisdizione
Per Rodney Dixon e i suoi colleghi la sfida principale è fornire abbastanza prove da convincere la Corte penale internazionale ad aprire un fascicolo d’indagine contro la Cina. Ma le difficoltà non sono poche. Pechino, infatti, non è tra i firmatari del trattato di Roma del 1998 con il quale è stato istituita la Corte penale internazionale, di conseguenza non aderisce al suo statuto e perciò non può essere perseguita penalmente dall’Aja. Tuttavia, il Tagikistan ha rettificato il trattato nel 2000. L’obiettivo, perciò, è far partire le indagini per dei crimini che la Cina commette nei paesi membri della Corte penale internazionale in modo tale da renderla perseguibile. Ma questo non è semplice anche per via della mancata collaborazione degli stati coinvolti che non vogliono inimicarsi Xi Jinping.
Tra questi c’è anche il confinante Afghanistan, caduto ad agosto nelle mani dei Talebani, dove vivono almeno 85 famiglie di etnia uigura. I nuovi detentori del potere, visto il disperato bisogno di finanziamenti internazionali, hanno fin da subito cercato di instaurare un rapporto diplomatico con il presidente cinese, il quale ora punta a costruire un centro di sicurezza per i tagiki all’interno del territorio afghano. Un investimento da circa dieci milioni di dollari.
La repressione
Le condizioni di vita a cui sono destinati gli uiguri sono note a quasi tutti. Detenzioni arbitrarie, controllo delle nascite, sparizioni forzate, internamento in campi di «rieducazione» e lavori forzati in grandi fabbriche o capannoni sono diventati prassi (si contano circa 80mila sfruttati nello specifico nel settore dell’abbigliamento e della tecnologia). A suffragare il calvario degli uiguri c’è anche un testo approvato dal Parlamento europeo che ha messo nero su bianco l’intera questione, prendendo una posizione netta.
Dal 2017 ad oggi sono almeno 380 i centri di rieducazione che sono stati costruiti o ampliati nel territorio dello Xinjiang. In queste strutture attraverso trattamenti inumani e degradanti vengono imposte lezioni di lingua cinese, diffusa l’ideologia del partito e demonizzata la religione islamica. Le misure adottate da Xi Jinping nei confronti degli uiguri raggiungono l’apice in un periodo in cui l’autoproclamato califfato islamico ha raggiunto la sua massima espansione in Iraq e Siria.
Ma la “war on terror” del presidente cinese non ha nulla da invidiare a quella statunitense. In risposta agli attentati commessi per mano di militanti jihadisti, alcuni dei quali sono affiliati all’East Turkistan Islamic Movement (Etim), il leader del partito comunista cinese ha dato vita a una strategia che palesemente viola i diritti umani.
Una situazione diventata intollerabile anche per alcuni paesi occidentali. I parlamenti di Olanda e Canada hanno approvato testi di condanna nei confronti della Cina accusandola di commettere un «genocidio» a danno degli uiguri. Mentre altri paesi, come l’Inghilterra hanno invece adottato politiche economiche di contrasto vietando, tra gli altri, l’esportazione di prodotti venduti da aziende accusate di servirsi del lavoro sfruttato degli uiguri.
Chissà se le nuove prove sottoposte all’Aja spingeranno i procuratori ad aprire formalmente un’indagine. Gli avvocati rimangono fiduciosi, non ci si può voltare indietro vista «la notorietà internazionale della questione, la sua manifesta gravità e la sofferenza continua delle innumerevoli vittime».
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