Una grande parte della popolazione civile non ha accesso a cibo, assistenza sanitaria e istruzione. Più della metà dei residenti nel paese vive sotto la soglia della povertà e i più vulnerabili sono soprattutto i rifugiati siriani: nove su dieci necessitano di assistenza. Il loro dramma, raccontato in prima persona
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A quasi un mese dalla firma della tregua tra Israele e Hezbollah, la crisi umanitaria in Libano colpisce ancora migliaia di persone. Secondo i numeri di Unhcr, l’Agenzia Onu per i rifugiati, a oggi si contano ancora oltre 200mila sfollati interni, mentre 785mila hanno iniziato a fare ritorno nelle proprie case dopo che l’esercito israeliano si è ritirato dal sud del paese.
Se la tregua durerà o meno nelle prossime settimane è ancora da vedere, ma al momento l’emergenza è un’altra. Il Libano sta attraversando una dura crisi socio-economica da diversi anni – acuita dall’esplosione del porto di Beirut e dalla pandemia – e ora la guerra non ha fatto altro che esacerbare la situazione. A una grande parte della popolazione civile manca l’accesso al cibo, all’assistenza sanitaria e all’istruzione.
Più della metà dei residenti in Libano vive sotto la soglia della povertà e i più vulnerabili sono soprattutto i rifugiati siriani. Nove su dieci di loro necessitano di assistenza. A raccontare il dramma umanitario è Shaza Faris, una rifugiata siriana di 59 anni originaria di Damasco che da oltre dodici anni vive in un campo di rifugiati in Libano.
Quando l’esercito israeliano ha iniziato a bombardare i sobborghi a sud della capitale, è stata costretta a lasciare il campo di Burj El Barajneh e spostarsi in cerca di un nuovo rifugio.
Il viaggio
«Gli attacchi erano troppo rischiosi per noi, che abbiamo dei bambini. Siamo partiti con i soli vestiti che avevamo addosso. Non abbiamo avuto il tempo di prendere nient'altro. Le mie nipoti, che hanno tre, sette e nove anni, hanno iniziato a piangere e a urlare. Una di loro era terrorizzata, continuava a chiederci di andarcene. Alla mia nipote più grande tremavano le mani e piangeva, mentre la più piccola non capiva cosa stesse succedendo», racconta Faris che in Libano vive insieme a tre figli e sei nipoti.
«È stato davvero difficile trovare un mezzo di trasporto. Tutti hanno iniziato a fuggire o a correre verso le zone colpite per soccorrere i feriti e i bambini. Non sapevamo dove fosse il luogo più sicuro dove rifugiarsi. Correvamo verso l'ignoto. Alla fine siamo arrivati a Beirut», aggiunge.
Aiutare gli altri
Una volta fuori dal campo Faris ha deciso di aiutare gli altri sfollati come lei, iniziando a lavorare come volontaria in un’associazione umanitaria. «Ci occupiamo dei libanesi che hanno perso la loro casa e dei rifugiati siriani come noi. Cerchiamo di aiutarli il più possibile, fornendo loro un alloggio e altre necessità, come il cibo. Molte persone sono rimaste senza vestiti. La stagione fredda è alle porte e hanno bambini da tenere al caldo. Distribuiamo coperte ai nostri fratelli e sorelle. Cerchiamo di aiutare nel nostro piccolo. Stiamo facendo del nostro meglio per cercare di alleviare le sofferenze maggiori», spiega Faris.
Tra Libano e Siria
A sopperire al vuoto statale ci sono associazioni e organizzazioni umanitarie come Unhcr. Diversi paesi hanno deciso di inviare pacchetti di aiuti nelle ultime settimane. Ma oltre a garantire i servizi basilari ci sono quartieri interi da ricostruire dopo la guerra con Israele che, secondo il ministero della Salute libanese, ha provocato almeno 3.768 morti e 15.699 feriti.
Sono già in discussione diversi progetti per la ricostruzione di Beirut, ma serviranno fondi e aiuti della comunità internazionale che al momento sta osservando attentamente cosa accadrà in Siria dopo la caduta del regime di Bashar al Assad per mano dei ribelli jihadisti filoturchi di Hayat Tahrir al sham.
Secondo Unhcr da quando è caduto il regime, lo scorso 8 dicembre, migliaia di rifugiati siriani residenti in Libano hanno iniziato a spostarsi per tornare nel paese di origine attraverso il valico di frontiera di Masnaa, mentre a migliaia hanno varcato il confine in direzione contraria per paura di una rappresaglia da parte del gruppo che ha preso il potere.
Secondo il ministro degli Affari sociali sono circa 85mila. Ma non tutti vogliono ritornare. «È tutto incerto quello che accadrà in Siria adesso», dice Shadia Mohammad Jesm, una donna di 50 anni che si trova insieme alla sua famiglia nel campo di Saadnayel dal 2014. «Vogliamo tornare indietro, ma abbiamo paura». Il campo dista solo pochi chilometri da Masnaa. «La Siria ha una straordinaria possibilità di avvicinarsi alla pace e di far tornare a casa la sua popolazione. Ma con la situazione ancora incerta, milioni di rifugiati stanno valutando attentamente quanto sia sicuro farlo. Alcuni sono impazienti, altri esitano», ha detto Filippo Grandi, Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Dal 27 novembre, giorno in cui è iniziata l’offensiva dei ribelli dal nord-ovest della Siria, circa un milione di persone sono state costrette a fuggire da molte aree della Siria e ora sono nuovi sfollati interni. Donne e bambini rappresentano quasi la metà di loro. Da quando è scoppiata la guerra civile nel 2011, più di 13 milioni di siriani sono stati costretti a lasciare le loro case e circa la metà di loro ha lasciato il paese. Per molti di loro il futuro è incerto.
«Non dimentichiamo, inoltre, che i bisogni all’interno della Siria rimangono immensi. Con le infrastrutture distrutte e oltre il 90% della popolazione che fa affidamento sugli aiuti umanitari, l’avvicinarsi dell’inverno rende necessaria un’assistenza urgente che comprenda riparo, cibo, acqua e fonti di calore», ha aggiunto Grandi.
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