Dopo due anni di conflitto, Putin nasconde la fase più critica da quando è al potere e la tramuta in una dimostrazione di forza, eliminando brutalmente oppositori e irridendo le sanzioni. Per difendere la propria indipendenza il popolo ucraino ha dimostrato essere pronto a sacrificare tutto. E l’occidente cos’è disposto a perdere per salvare i suoi valori?
A due anni dall’invasione russa in Ucraina, si susseguono pagine di interviste, rivolte a diversi opinionisti, giornalisti e analisti, che analizzano il grado di forza/debolezza e della vittoria/sconfitta degli attori in gioco.
Tuttavia, gran parte di queste valutazioni non specificano rispetto a quali parametri (ad esempio, l’obiettivo finale delle rispettive parti? Evitare un’ulteriore escalation, un compromesso? Raggiungere una “pace giusta”, ecc.) l’Ucraina e la Russia stiano vincendo o perdendo e, di conseguenza, se i loro rispettivi leader siano in una posizione politicamente più solida o meno.
Un conto è comparare la situazione attuale rispetto a quella di due anni fa, un altro discorso è limitare temporalmente l’analisi agli accadimenti degli ultimi mesi o, anche, dell’ultimo anno.
Nel primo caso, la coraggiosa e, per alcuni, inaspettata resistenza del popolo ucraino è già una grande vittoria contro l’invasore russo che ha subito una sconfitta strategica sul campo, ha commesso una serie di errori di valutazione, ha dimostrato gravi carenze sul piano militare, ritrovandosi in una situazione che, molto probabilmente, non si aspettava, ma dalla quale non poteva più sfuggire.
La situazione sul campo
Tuttavia, con il passare del tempo, il Cremlino ha saputo “aggiustare il tiro”, soprattutto grazie al contributo fondamentale della compagnia militare privata Wagner, guidata da Evgenij Prigožin e dall’esercito del governatore ceceno, Ramzan Kadyrov, che hanno contribuito all’avanzata sul terreno.
Le sostituzioni dei vertici militari adottate da Vladimir Putin, pur mantenendo ai propri ruoli il ministro della difesa, Sergej Shoigu, e del capo delle forze armate, Valerij Gerasimov, sono state un ulteriore rafforzamento della gerarchia di comando delle truppe russe e degli esiti sul campo di battaglia, anche in virtù della fornitura di armi provenienti dalla Corea del Nord e da un significativo aumento della produzione industriale militare russa.
Sul versante ucraino, sono sempre più evidenti i problemi di carenza di armi e munizioni provenienti dai paesi occidentali e la difficoltà di reperire nuove e più giovani forze per combattere.
Mentre Putin non prevede, almeno durante la campagna presidenziale una nuova mobilitazione, ma ha continuato a reclutare volontari e addestrare i riservisti, il presidente ucraino Volodomyr Zelensky ha annunciato la necessità di mobilitare nelle forze armate fra i 450mila e i 500mila uomini perché «i ragazzi impegnati da ormai due anni sul fronte, hanno bisogno di essere sostituiti da altri uomini».
Il rapporto tra il capitale umano e le armi a disposizione è inevitabilmente a favore della Russia: anche i migliori esperti di strategia militare convengono sul fatto che gli aiuti americani sono fondamentali per evitare uno scenario peggiore per l’Ucraina.
Il sostegno economico europeo è prevalentemente destinato ad evitare il fallimento economico dello stato ucraino, ma è insufficiente per garantire un successo militare.
Di questo avviso è, infatti, l’Alto rappresentante europeo per la politica estera, Josep Borrell che alla conferenza di Monaco ha affermato: «Zelensky e gli ucraini hanno ricevuto molti applausi e munizioni non a sufficienza».
È, quindi, inutile, con una guerra in corso, parlare di vittoria e sconfitta anche se il ritiro dell’esercito ucraino da Bakhmut nel 2023 e da Avdeevka, qualche giorno fa, ha rappresentato un duro colpo al simbolo della resistenza ucraina e al morale dei soldati.
Sul versante russo, però, non si denotano significative avanzate territoriali, ma la strategia prevalente sembra il mantenimento delle posizioni acquisite e non ulteriori sfondamenti.
Ciò che è emerso con estrema chiarezza è che le condizioni meteorologiche hanno sempre condizionato il ritmo della battaglia con diverse fasi di stallo durante le quali l’esercito russo ha puntato sul difendere/mantenere ciò che era stata conquistato, mentre l’Ucraina ha atteso nuove armi ed elaborato strategie alternative.
La primavera si sta avvicinando e potrebbe verificarsi la prima svolta del 2024: un’offensiva russa per approfittare della carenza di armi che tardano ad arrivare o, qualora arrivassero, una reazione ucraina di portata ben più ampia rispetto al passato. Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha, infatti, affermato che quando l’Ucraina avrà in dotazione i caccia F-16 avrà diritto di colpire obiettivi in territorio russo: «L’Ucraina ha il diritto all’autodifesa, compreso l’attacco a strutture militari russe legittime al di fuori dell’Ucraina».
Un altro scenario potrebbe escludere l’escalation del conflitto, ma il suo andamento potrebbe oscillare tra impasse e controffensive in una guerra di logoramento che comporta, come abbiamo già osservato in questi due anni, inevitabili conseguenze sulla forza/debolezza politica dei leader di questi due paesi.
Zelensky vs Putin
Proviamo ad esplorare questa dicotomia: Putin è più forte/debole dopo le morti di Prigožin e Aleksej Navalnyj? Zelensky è più debole/forte dopo l’inefficace controffensiva estiva e gli scontri con il capo delle forze armate Valerij Zalužnyj?
È stato proprio il ruolo della Wagner in Ucraina a fomentare le ambizioni politiche di Prigožin che ha lanciato la “marcia su Mosca” nel giugno 2023, proponendosi come un leader populista e patriottico, pronto a guidare il paese al posto del presidente russo.
Ma da “cuoco di Putin”, Prigožin è diventato un’altra medaglia al petto dei diversi delitti di stato attribuiti a Putin. Non solo. Come abbiamo letto in queste pagine, nella recente intervista al russologo Mark Galeotti, e come abbiamo spesso sostenuto, la stabilità della struttura del Cremlino presenta diverse falle nella “verticale del potere” putiniano; alcuni segnali di una lenta, ma significativa fragilità che può portare a scosse ben più destabilizzanti, anche se non immediate.
Per uscire da una situazione di debolezza politica o timore delle conseguenze personali e sistemiche di un cambiamento di regime, Putin ha reagito nell’unico modo che conosce: l’inasprimento della politica di repressione, già avviata da oltre un decennio, ma con un’ulteriore stretta dopo l’ammutinamento di Prigožin.
La lista degli arresti, processi e pene severe ai suoi oppositori esterni e interni al regime si allunga sempre più e la morte di Navalnyj, il simbolo della dissidenza in Russia del XXI secolo, sono indicatori evidenti di una paura dinanzi alla quale non vi è alcun indugio ad usare la violenza politica.
In questo modo, Putin nasconde la fase più critica da quando è al potere e la tramuta in una dimostrazione di forza verso tutti coloro i quali osano sfidarlo.
Una forza che il presidente russo, nella sua narrazione, ostenta anche sul piano economico, sbeffeggiando l’inefficacia dei vari pacchetti di sanzioni, sul piano militare con le annessioni dei territori occupati o elencando le sconfitte dell’esercito ucraino, e sul piano politico con la sua rielezione plebiscitaria.
Per Putin la vittoria (pobeda) della Russia è garantita (come si sconfigge una potenza nucleare?), non è in discussione perché, al contrario, significherebbe la sua fine politica e, da non escludere, anche il crollo del paese. L’obiettivo principale è evitare di perdere l’Ucraina dalla propria “sfera d’influenza/interesse, ad ogni costo, anche se questo vuol dire impiegare risorse umane, economiche e militari nei prossimi anni.
È, indubbiamente, diversa la situazione politica e militare in cui si trova Zelensky, indebolito dall’insuccesso della controffensiva estiva e dallo scontro con il capo delle forze armate Zalužnyj, che non nasconde eventuali ambizioni presidenziali, qualora ci fossero le elezioni attualmente sospese dalla legge marziale.
La storia ha diversi esempi di scontri tra il potere militare e politico tali da non escludere che anche Zelensky potrebbe perdere la guida del paese e diventare il capro espiatorio di tutti gli insuccessi avvenuti in questi anni.
I suoi avversari politici, tra cui anche la componente nazionalista, non esiterebbero a sfruttare la sua immagine di un presidente sconfitto per arrivare al potere: in questo caso, potrebbe anche essere minato il percorso di consolidamento democratico del paese. Inoltre, anche diversi istituti di sondaggio di Kiev rilevano una stanchezza nella popolazione che lascia aperta l’ipotesi di una negoziazione con il nemico: si parla anche dell’eventualità di non insistere sulla riconquista della Crimea.
A prescindere dallo scenario peggiore che si possa immaginare, una certezza emerge sin dall’inizio di questo conflitto: l’Ucraina non può accumulare altri insuccessi militari, deve non solo resistere ma assestare un duro colpo alla Russia.
La lezione dell’occidente
Una guerra si sviluppa tra successi e fallimenti che possono più o meno indebolire l’assetto politico dei paesi coinvolti, ma l’inizio del terzo anno del conflitto dovrebbe avere insegnato più di una lezione, soprattutto ai leader occidentali.
Da dieci anni l’Ucraina è costantemente attaccata dalla Russia, ma non sono stati compiuti sforzi diplomatici sufficienti (si pensi agli accordi di Minsk) per arginare il problema. Si è pensato che i rapporti commerciali e qualche pacchetto di sanzioni fossero sufficienti per ridurre le ambizioni revisioniste della Russia che trova nella Cina e nel cosiddetto Sud Globale delle sponde in chiave antiamericana.
A sua volta, l’amministrazione americana si trova nella fase più critica della sua storia sia sul piano domestico sia nella leadership mondiale. Come ha sostenuto il segretario di Stato Antony Blinken: gli Usa hanno investito troppo per abbandonare l’Ucraina; sostenerla può avere «un impatto sui calcoli futuri dei cinesi e su cosa possono aspettarsi a Taiwan».
L’esito delle elezioni americane, forse, racchiude il dilemma che ha polarizzato tutto il dibattito politico sulla guerra in Ucraina: l’opzione Joe Biden per la vittoria finale per l’Ucraina o l’accordo in 24 ore di Donald Trump?
Nel primo caso, bisogna mettere in conto che per sconfiggere una potenza nucleare si rischia non solo un’escalation ma un conflitto mondiale; nel secondo caso, si tratterebbe di un compromesso a ribasso che metterebbe a rischio i valori europei e uno smembramento dell’Ucraina.
Tra queste due opzioni in antitesi, dovrebbe subentrare una visione politica capace di scongiurare la prima e limitare i danni della seconda. Ma ci vuole una maggiore consapevolezza dei rischi che si devono affrontare nel bene e nel male.
Per difendere la propria indipendenza il popolo ucraino ha dimostrato di sacrificare “il tutto per tutto”. E noi, cosa siamo disposti a perdere per salvare i nostri valori?
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