- Per garantire che l’output continui a essere maggiore delle esternalità, un patto faustiano ha condannato l’economia nazionale all’illimitata espansione, alla concorrenza mondiale e allo sfruttamento forsennato di risorse.
- Oggi sappiamo che un limite esiste, di natura ecologica. Per via della sua dipendenza dai combustibili fossili, la modernità non sembra essere replicabile tale e quale.
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L’Europa ha bisogno di un nuovo 1789. Se a unirci oggi non sono né una lingua né una secolare linea di monarchi, perlomeno possiamo contare sulla comune consapevolezza della crisi ambientale in cui siamo imbarcati. Il testo fa parte del nuovo numero di Scenari, scopri quali sono gli altri contributi. Per leggerli tutti è possibile abbonarsi qui.
La storia non si ripete mai identica, e tuttavia da almeno due secoli sono identici i grandi dilemmi che ci pone. Ogni volta che confrontiamo idee opposte sull’Europa e il suo mercato unico – ovvero sull’istituzione di un’area economica là dove prima esistevano regole differenti, dazi e dogane – non facciamo altro che rimettere in scena lo scontro ideologico che ha lacerato il continente al tempo della Rivoluzione francese.
La storia non si ripete mai identica, e tuttavia due secoli dopo è identica la sfida alla quale siamo confrontati: risolvere quei dilemmi per costruire assieme la dimensione politica, culturale, forse anche mitologica, adeguata alle esigenze della popolazione che vive sul territorio europeo.
La Rivoluzione del 1789 fu sostanzialmente due cose, e formalmente una terza: primo, la realizzazione definitiva del progetto assolutistico di centralizzazione amministrativa del territorio tra le Alpi, i Pirenei e il Reno iniziato ai tempi di Carlomagno; secondo, la definitiva liberalizzazione del suo mercato interno, l’abbattimento di tutte le frontiere e dogane tra le differenti province, assieme a lenzuolate di riforme radicali come l’abolizione delle corporazioni e l’unificazione monetaria. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile se non si fosse anche dato a questo duplice programma una forma politica con al cuore la finzione di una volontà popolare: la nazione francese.
Fu grazie a quella finzione, unita alle promesse dell’illuminismo, che si poté legittimare ex ante l’altissimo prezzo di quella fase di distruzione creatrice: persecuzioni, distruzioni, propaganda, assimilazione forzata delle minoranze regionali. Gli straordinari risultati di quella nuova forma politica le hanno dato presto ragione. Il paese aveva raggiunto la scala più adatta allo stato di sviluppo delle sue forze produttive, la struttura istituzionale ideale per il suo grado d’integrazione economica. Il modello dello stato-nazione si esportò in tutto il continente e poi in tutto il mondo: era la tecnologia migliore per rispondere alla sfida che si era posta all’epoca.
È in questo senso che si considera l’anno 1789 come il big bang del mondo in cui viviamo ancora oggi. Tre dilemmi in particolare ci accompagnano da allora: popolo contro tecnocrazia, nazionalismo contro liberalismo, reazione contro progresso. Tre dilemmi ai quali la modernità ha sempre saputo trovare una sintesi, finché non sono riemersi con forza. Soltanto capendo in che modo sono stati posti e risolti per la prima volta due secoli fa saremo forse in grado di risolverli nel presente.
Popolo contro tecnocrazia
Nel settembre 1774, il ministro Turgot emanò un editto che liberalizzava il commercio dei grani sul territorio francese. Era una riforma lungamente attesa, a compimento dei voti espressi da decenni da tutti i principali economisti di Francia e d’Europa, sostenitori di un “sistema della libertà” che prometteva miracoli. Fino ad allora la circolazione del grano era autorizzata soltanto all’interno delle singole province e vi erano ovunque pedaggi sul territorio: ai ponti, ai fiumi, all’entrata delle città, delle fiere e dei mercati. Insomma una quantità enorme di costi intermediari che gravava sul prezzo finale delle merci. L’antico sistema feudale aveva paralizzato per secoli le forze produttive in una condizione stazionaria che oscillava tra sussistenza e scarsità.
Sospendendo le vecchie regole che intralciavano la circolazione, Turgot intendeva evidentemente far abbassare i prezzi; ma in pratica successe esattamente il contrario. I raccolti tra il 1773 e il 1774 erano stati pessimi e i proprietari iniziarono a speculare, accumulando il grano e – cosa che prima dell’editto non avrebbero potuto fare – rivendendolo nelle province dove potevano guadagnare di più.
Contrariamente alle previsioni, i meccanismi di mercato non garantirono alcuna allocazione ottimale delle risorse. Anzi rapidamente provocarono una penuria di pane e alimentarono voci incontrollate di complotti contro il popolo. Da allora e per lungo tempo, liberalizzazione divenne sinonimo di raggiro: non soltanto la teoria degli economisti suonava contro-intuitiva, ma inoltre la sua prima verifica empirica aveva prodotto un disastro.
Turgot si difese: a causare la crisi era stata la paura della crisi. E accusò le autorità locali delle province colpite: «Il modo migliore per scatenare una penuria è promulgare ordinanze pubbliche destinate a prevenirla».
Lo storico Le Roy Ladurie ha attribuito la responsabilità della crisi frumentaria del 1775 al dogmatismo di Turgot, che faceva «economia nella sua testa» ignorando la realtà. Nella fretta di applicare le sue teorie, il ministro aveva trascurato completamente il fattore umano e le resistenze culturali. Contro la ragione degli economisti, prevalse la folla ignorante che «non aveva capito» il senso delle riforme.
Avevano davvero ragione i fautori della liberalizzazione? Col senno di poi, è difficile negare che le loro teorie fossero le più adatte a garantire le condizioni di sussistenza di una popolazione in forte crescita demografica. Se l’obiettivo che gli economisti si erano prefissi era di aumentare la produttività e la produzione, non c’è dubbio che fossero sulla buona strada. Ma convincere la plebe della validità di quelle teorie era più complicato. E dal punto di vista degli economisti, forse persino inutile. Del resto, non avevano mai avuto grande stima delle masse ineducate.
Battezzarono «dispotismo legale» il loro ideale sistema di governo: auspicavano un governo accentrato e autoritario, oggi diremmo tecnocratico, che spezzasse i poteri intermedi, le resistenze feudali, i privilegi dell’aristocrazia e delle comunità locali, per garantire un progresso economico del quale l’intera società avrebbe potuto godere. Ma fecero un grande errore, lo stesso che i loro eredi continuano a fare due secoli dopo: avevano dimenticato la politica.
La Rivoluzione francese giunse, quindici anni dopo, a colmare quel vuoto di politica. Fallito nel 1775 il primo grande tentativo di liberalizzazione, i malumori e le leggende metropolitane che si erano accumulate in quella primavera ispirarono una successiva rivolta quattordici anni più tardi, all’occasione della penuria del 1789. La rivolta divenne una rivoluzione – la Rivoluzione – la quale però mandò al potere proprio dei riformatori ispirati dalle teorie… di Turgot. Il blocco tra borghesia e plebe urbana (in una prima fase sostenuto dalla monarchia) aveva prevalso sul blocco tra aristocrazia e plebe rurale. Questo blocco si era costituito sulla base di un grandioso malinteso: in nome del popolo contro la monarchia, per realizzare il progetto politico-economico di quella stessa monarchia.
Nazionalismo contro liberalismo
La tecnocrazia, nella sua ottusità, aveva provocato le ire del popolo; il popolo, nella sua irruenza, aveva realizzato i piani della tecnocrazia. Insomma la dialettica tra popolo e tecnocrazia aveva trovato una sintesi: avevano prevalso tendenze storiche più profonde. Lo stesso vale per la dialettica tra nazionalismo e liberalismo.
Il 29 agosto 1789, un mese soltanto dopo la presa della Bastiglia, l’assemblea costituente pronunciò nuovamente la completa liberalizzazione del grano. Ulteriori decreti andarono a rinforzare questa decisione finché nel 1792 non venne addirittura stabilita la pena di morte per chiunque si fosse opposto alla libera circolazione: il cosiddetto Terrore fu un caso esemplare di dittatura liberale che si era resa necessaria per portare a buon fine il programma rivoluzionario.
Negli stessi anni vennero aboliti tutti i pedaggi e le dogane sul territorio francese. Anche se periodicamente il governo fu costretto a ripristinare barriere interne in occasione di crisi frumentarie, per almeno due secoli stato nazionale e mercato unico divennero nell’Europa continentale due concetti inseparabili. Il nazionalismo non è certo un’alternativa al liberalismo, ma il necessario hardware sul quale da tre secoli “gira” la società aperta. La definizione di una zona di scambio è il gesto politico per eccellenza: parafrasando Carl Schmitt: «Sovrano è chi decide sui limiti del mercato».
La distinzione tra commercio “interno” e commercio “esterno” viene istituita: la Rivoluzione fu la consacrazione di un “interno”, la repubblica francese, là dove prima vi era un “esterno”, ovvero un’accozzaglia di giurisdizioni tenute assieme da rapporti di forza e antiche regole ereditate dalla società feudale.
Dai tempi del re Sole si era posto in maniera sempre più pressante il problema di utilizzare i poteri dello stato per scardinare gli antichi equilibri e costruire un mercato nazionale funzionante. Lo stato rivoluzionario non si limitò a liberare i contadini dal servaggio con la solenne dichiarazione del 4 agosto 1789, ma riprese su nuove basi la costruzione dell’infrastruttura giuridica e materiale del mercato nazionale, disegnando mappe, stabilendo nuove unità di misura, stabilendo nuovi tribunali e nuove leggi. Il sistema, superati i suoi primi tentennamenti, dimostrò rapidamente la sua efficacia, assicurando un output produttivo molto più alto (ed equamente distribuito) di quello del modo di produzione feudale. E quindi anche un reddito imponibile più elevato, che avrebbe permesso allo stato di finanziare la sua espansione. Stato e moderna società commerciale hanno viaggiato insieme, fin dalla prima età moderna, come insegnano gli studi di Giovanni Arrighi.
La storia della Francia rivoluzionaria, come quella dell’Italia o della Germania, come tre secoli più tardi quella dell’Europa unita, consiste in questo doppio movimento – liberalizzazione e centralizzazione – dal quale sorgono simultaneamente un’area di scambio sempre più ampia e una struttura amministrativa sempre più estesa. La storia europea degli ultimi due secoli ci mostra che queste due tendenze vanno a braccetto e che rispondono a una necessità precisa: far funzionare un modo di produzione che, finché non s’inceppa, sembra garantire il miglior compromesso tra efficienza e uguaglianza. E quando invece s’inceppa? Allora comprensibilmente riaffiora la nostalgia per il piccolo mondo antico del feudalesimo, con il suo seducente sistema di tutele.
Reazione contro progresso
La storia dei nazionalismi europei è la storia dell’emersione di nuovi spazi politici che rispondono efficacemente ai nuovi bisogni delle popolazioni. Ma queste trasformazioni hanno un prezzo altissimo e richiedono tempi lunghi, necessari per “assimilare” le popolazioni periferiche, ovvero formare la popolazione a un nuovo sistema di norme e di comportamenti: sradicare il clientelismo, la corruzione e i costi indiretti che gravano sull’economia.
In effetti quello che dal punto di vista del riformatore è corruzione, dal punto vista del riformato potrebbe essere semplicemente amicizia, cortesia o tradizione. In un celebre articolo del 1971, lo storico inglese E. P. Thompson parlò di una «moral economy» che regolava la vita sociale della plebe sotto l’antico regime.
Con questo termine Thompson intendeva designare la concezione che le classi popolari inglesi avevano del mercato e dei rapporti fra gli attori economici. Il popolo riteneva di avere dei diritti garantiti dalla tradizione. Ma molti dei comportamenti che i riformatori settecenteschi caldeggiavano erano incompatibili con questi diritti.
Quel che facevano i grossi mercanti, come comprare il grano prima che raggiungesse il luogo fisico del mercato cittadino, tagliava fuori i piccoli acquirenti dal commercio. Così a partire dalla fine del Settecento la classe lavoratrice inglese si organizzò per rivendicare i diritti che le erano stati garantiti, secondo una leggenda, al tempo degli antichi re sassoni. Erano romantici passatisti o precursori del socialismo? Gli studi di Thompson mostrano quanto sia ambigua anche la terza dicotomia della modernità, quella tra reazione e progresso.
Sicuramente la ragione stava da entrambe le parti. Effettivamente i limiti alla circolazione dei grani potevano rivelarsi utili in caso di emergenza. Tuttavia questo tipo di economia morale aveva dei costi molto alti, che gli economisti non si stancavano di denunciare. Limitare la circolazione voleva dire limitare i profitti, come si è detto, e quindi gli investimenti che invece le nuove tecniche agricole rendevano sempre più necessari per nutrire una popolazione crescente. Era proprio l’economia morale a inchiodare l’agricoltura europea in prossimità della soglia di sussistenza.
Le nuove dottrine della libera circolazione suscitavano le resistenze del popolo, dei poveri contadini, e della plebe urbana, che confidavano nei meccanismi di regolazione dell’antico regime per sopravvivere in caso di carestia. Ma contro la liberalizzazione intervennero anche i nobili, gelosi delle proprie tradizionali prerogative. Il partito della libertà finì per prevalere perché aveva dalla sua la ragione dell’efficienza e della produttività.
Nessuno era cieco alle vittime collaterali della marcia trionfale della storia. Abolendo i “privilegi” delle corporazioni e le protezioni delle classi laboriose, enormi masse di persone furono spinte a cercare altre fonti di reddito e nuovi sbocchi professionali. Iniziarono a migrare dalle campagne alle città e finirono poi a lavorare nelle fabbriche, alimentando un progresso economico del quale soltanto i loro figli o nipoti avrebbero effettivamente goduto.
Un nuovo immaginario
Due secoli dopo la Rivoluzione francese, i dilemmi della modernità sono riemersi con forza, segnalando che quella che sembrava una vittoria definitiva del partito progressista è invece sempre stata provvisoria. Popolo contro tecnocrazia, nazionalismo contro liberalismo, progresso contro reazione, i tre dilemmi che la dialettica dello sviluppo economico era riuscita a risolvere e superare, sono tornati nell’ultimo decennio a scavare le trincee di un aspro conflitto.
Cadute le illusioni della Ragione, oggi si è fatto largo il timore che nessun incremento del benessere attende i nostri figli e nipoti. Le anguste cornici nazionali sembrano sempre meno in grado di garantire la soddisfazione delle promesse che avevano fatto per insediarsi, proprio come le anguste cornici regionali all’alba del 1789.
Col tempo, anche la tecnologia dello stato-nazione si è fatta desueta. L’economia industriale ha impresso il suo senso alla storia dei popoli, richiedendo mercati (e quindi giurisdizioni territoriali) sempre più ampi per perfezionare la divisione del lavoro, con conseguenze fruttuose sul piano dell’output produttivo ma non prive di esternalità distruttive sul tessuto sociale ed ecologico. Per garantire che l’output continui a essere maggiore delle esternalità, un patto faustiano ha condannato l’economia nazionale all’illimitata espansione, alla concorrenza mondiale e allo sfruttamento forsennato di risorse. Oggi sappiamo che un limite esiste, di natura ecologica. Per via della sua dipendenza dai combustibili fossili, la modernità non sembra essere replicabile tale e quale.
Quale rivoluzione, allora, potrà salvare l’Europa? Il mercato è uno spazio politico, ma gli spazi politici non sono immutabili nei secoli: possono cambiare e adattarsi. La storia delle rivoluzioni nazionali ci mostra che l’estensione ideale delle aree politiche è una variabile dipendente dalla profondità delle filiere di produzione a ogni stadio dello sviluppo tecnologico.
Per dotarsi delle istituzioni necessarie al suo sviluppo, la popolazione francese aveva dovuto pensarsi come nazione. Quella che all’epoca era la scala nazionale, oggi è la scala continentale: l’Europa ha bisogno di un nuovo 1789. Sfortunatamente non ci sono oggi le medesime condizioni culturali della Francia di Luigi XVI: secoli di storia, di lingua e di cultura comune avevano preparato quell’evento. Né possiamo ignorare, nel cinquantennale del rapporto del Club di Roma, i limiti intrinseci del programma produttivista della modernità.
Bisognerà allora prendere sul serio il verso di Friedrich Hölderlin, scritto a ridosso della Rivoluzione francese: «Lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva». Se a unirci oggi non sono né una lingua né una secolare linea di monarchi, perlomeno possiamo contare sulla comune consapevolezza della crisi ambientale in cui siamo imbarcati. Il patto faustiano può essere rovesciato in un nuovo patto ecologico sul quale costruire quella comunità più grande, di nome Europa, che sola potrà garantire la nostra sopravvivenza.
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