Prima dell’attacco di Hamas a Tel Aviv i manifestanti si preparavano a scendere in piazza per il quarantesimo giorno di proteste contro la riforma della giustizia voluta dal governo di Netanyahu. Ma adesso la società civile è unita nel sostenere lo sforzo bellico
Entrando all’Expo di Tel Aviv, si nota immediatamente un frenetico via vai di gente. Persone che portano scatoloni, altre che danno e ricevono istruzioni, furgoni e macchine che vanno e vengono. Nel giro di due giorni e mezzo parte del complesso fieristico di Tel Aviv è stato trasformato in un centro di raccolta e smistamento degli aiuti gestito interamente da volontari.
All’esterno una coda di macchine scaricano ai volontari provviste di ogni tipo. Cibo, shampoo, vestiti, lenzuola, giocattoli, passeggini, vestiti, ogni cosa possa essere utile ai militari e alla gente colpita dai miliziani di Hamas nel sud del paese.
Questa notevole e già strutturata macchina della solidarietà è stata messa in piedi da alcune delle organizzazioni che dall’inizio dell’anno hanno dedicato sforzi notevoli a protestare contro la riforma della giustizia proposta dal governo di Benjamin “Bibi” Netanyahu, provocando una lacerazione profonda nella società israeliana. Una spaccatura che sembrava inconciliabile.
«Siamo tutti qui per la stessa causa e cioè per aiutare il popolo di Israele ad attraversare questo periodo difficile. Non diciamo più nulla sul governo, pensiamo solo a fornire all’esercito e alla gente del sud del paese quello di cui hanno bisogno» dice Gilad Baron, uno dei coordinatori del centro all’Expo e membro di un gruppo di protesta contro la riforma. Qui, spiega Baron, dalla cosiddetta war room all’edificio Mixer nel complesso fieristico, c’è anche un gruppo di volontari che si dedica ad aiutare i familiari delle persone scomparse, incrociando tutte le informazioni reperibili sul web con quelle fornite dalle famiglie.
Le manifestazioni
Il giorno in cui Hamas ha attaccato Israele si sarebbe dovuta tenere la quarantesima manifestazione di protesta contro la riforma della giustizia pianificata dal governo del paese. L’obiettivo di questa, a detta del governo, è quello di contenere il potere della Corte Suprema israeliana, giudicata troppo attivista dal governo di destra, nazionalista e religioso ora in carica, riequilibrando i poteri di parlamento, governo e magistratura.
Sin dall’inizio la parte più liberal e laica della società ha visto l’azione del governo sulla giustizia come un tentativo per sovvertire le regole democratiche e trasformare Israele in una semi-dittatura, a sfondo religioso. Negli anni, infatti, la Corte ha annullato, applicando il cosiddetto principio di ragionevolezza, alcune decisione del governo nazionale e anche di amministrazioni locali.
Si è pronunciata in base alle cosiddette Basic Laws, una serie di principi giuridici, semi-costituzionali su questioni estremamente spinose, come quella dei settlements dei coloni israeliani in Cisgiordania e ha impedito che diventasse legge l’esenzione dell’obbligo di leva per i giovani Haredim, che non vogliono farla, sostenendo di contribuire allo stato israeliano perpetuando le tradizioni religiose ebraiche attraverso lo studio a tempo pieno della Torah.
Unità ritrovata
Le diverse opinioni sulla riforma avevano acuito notevolmente le differenze tra queste due anime della società israeliana, che sembravano destinate a scontrarsi ferocemente senza che una soluzione sembrasse possibile.
«Ora, i vari gruppi sono diventati da organizzazioni di protesta a organizzazioni umanitarie. Il giorno che è iniziata la guerra abbiamo deciso di metter tutto da parte, in pausa, per fare quello che possiamo per aiutare il nostro paese» dice Yuval Gannot, un sorridente trentunenne, che milita membro del gruppo di protesta Hofshi B’Artzenu (Liberi nella nostra patria).
Gannot qui si sta occupando della parte logistica e parla a Domani mentre smista gli aiuti in arrivo, con l’aiuto di un megafono, dirigendo anche un gruppo di rifugiati eritrei venuti spontaneamente a Tel Aviv da varie città limitrofe per aiutare al centro dell’Expo.
Le manifestazioni di solidarietà e unità con le forze di difesa israeliane si sono anche viste con la quantità di gente che si è precipitata agli ospedali israeliani per donare il sangue.
All’enorme e centrale ospedale Ichilov di Tel Aviv una folla di persone si è presentata sin dalle prime ore del mattino per donare il proprio sangue. Alle 18:30 l’ospedale non faceva entrare più nessuno perché la coda era talmente lunga da essere sufficiente per ultimare il servizio di raccolta alle 22. In altri ospedali del paese si sono viste scene analoghe all’indomani dell’attacco.
Verso il fronte
Nella galassia del movimento di protesta c’è chi, comunque, ci tiene a precisare che il conflitto politico tra le due anime della società rimane, come pure tra vari israeliani.
«Le divisioni non spariscono. Al contrario» dice il giornalista Meron Rapoport. Da alcuni il conflitto politico è stato anche posto in termini di origini dei vari cittadini di Israele, vale dire gli ashkenazi, o gli ebrei di origine europea, tendenzialmente laici e liberali e i sefarditi, di origine mediorientale e nordafricana, che sarebbero più conservatori e religiosi, facendo risalire le divisioni attuali a divisioni storiche.
«Dopo 75 anni, ci siamo mescolati e queste divisioni sono vere solo molto parzialmente. Invece le divisioni politiche sulla riforma esistono ancora e sono molto chiare, non sono se ne sono andate di certo. Il fatto è che in una situazione così dura, il nostro 11 settembre, noi sappiamo come compartimentalizzare in tempo reale» dice Noam Kaiser, un investitore di venture capital.
«Ci saranno persone nella stessa unità che ora sono insieme e la pensano in maniera diversa» continua il quarantasettenne e padre di tre figli. «Ma quando indossiamo l’uniforme, ci proteggiamo reciprocamente» dice ricordando di avere prestato servizio presso l’esercito per cinque anni e per 18 mesi come riservista.
È quello che diceva senza mezzi termini Elinor Elbaz, una giovane insegnante di educazione fisica e riservista domenica mattina, mentre osservava il terzo piano in una centralissima zona di Tel Aviv sventrato da un razzo lanciato da Gaza la sera prima.
Elbaz aveva già ricevuto una chiamata domenica dall’esercito e aveva dato piena disponibilità a presentarsi immediatamente.
«Hai visto cos’hanno fatto? Hanno ucciso e rapito donne e bambini. Sono dei mostri! Non mi interessa la politica in questo momento. Appena mi chiamano andrò. E vinceremo» dice Elbaz, con voce ferma. La ventinovenne è partita per zone di guerra lunedì pomeriggio, conferma il suo fidanzato Jordan.
Eytan Morgenstern, 37 anni, che lavora come ufficio stampa in una società israeliana è un altro dei più di 300mila riservisti che ha risposto immediatamente alla chiamata dell’esercito domenica, il giorno dopo l’attacco.
«Le differenze politiche rimangono ma tutti ora stiamo cercando di fare la nostra parte. Nella mia unità tutti si sono presentati, non conosco nessuno che non si è presentato» dice dal fronte, in una località che non può specificare. «Io personalmente ho opinioni contrastanti sulla riforma. Ho anche amici e familiari che sono su posizioni opposte, ma ora dobbiamo solo pensare tutti a proteggere la nostra gente. Torneremo poi a discutere ma ne usciremo anche da quello».
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