Scioperi e uragani hanno rovinato la festa dei dati economici a Kamala Harris. Ieri il Bureau of Labor Statistics ha pubblicato l’ultimo rapporto mensile sul mercato del lavoro prima delle elezioni, e l’esito risente di due tempeste devastanti che hanno messo in ginocchio diversi stati e di agitazioni dei lavoratori (soprattutto quelli di Boeing) che hanno bloccato le assunzioni.

Risultato: soltanto 12mila posti di lavoro creati nell’ultimo mese, un dato al di sotto delle aspettative degli economisti, che pure tenevano conto della congiuntura climatica sfavorevole. Il tasso di disoccupazione rimane fermo al 4,1 per cento, il dato migliore degli ultimi due anni.

Gli esperti ora discuteranno se si tratta di un’anemia passeggera quanto un uragano oppure se il rallentamento ha cause più profonde, e le revisioni al ribasso delle stime di agosto e settembre non depongono del tutto a favore della prima ipotesi (negli ultimi sei mesi gli Stati Uniti hanno creato in media 104mila posti di lavoro al mese, contro i 189mila dei sei mesi precedenti). 

Effetti sulle urne

Ma l’orizzonte dei problemi ora si limita a quello che succederà martedì. E Harris sperava di arrivare all’appuntamento con le urne con un altro indicatore positivo in materia economica, dopo che la crescita annua è stata rivista al 2,8 per cento (oltre le aspettative) e soprattutto dopo l’ennesimo report che certifica il rapido calo dell’inflazione, faccenda che ha riscontri immediati sul portafogli della classe media. A completare il quadro positivo dovrebbe essere la Fed, che la settimana prossima potrebbe tagliare i tassi di un quarto di punto per sostenere la crescita e segnalare fiducia verso la piega presa dall’inflazione.

Sono di fatto conferme che la Bidenomics sta funzionando e che la strada della continuità rappresentata da Harris è affidabile. Tutti i rilevamenti indicano che l’economia è la priorità assoluta degli elettori americani, e tuttavia i sondaggi – che registrano il complesso mix degli umori nel momento dell’agitazione pre-elettorale, non i prezzi allo scaffale – mostrano livelli di frustrazione economica che non si conciliano con ciò che dicono i dati.

Donald Trump ostinatamente grida che il paese è ridotto a «un bidone della spazzatura» e il suo grido viene ascoltato e amplificato da un elettorato che sta tendenzialmente meglio di come stava quattro anni fa. È in questo fossato fra la percezione e la realtà che si colloca il genio elettorale di Trump.

Bassezze retoriche

Il candidato repubblicano arriva con uno slancio maggiore della vicepresidente all’appuntamento decisivo, e ha costruito questo sentimento positivo anche imponendo slogan, parole d’ordine, paure, paranoie e veleni che sono molto più capaci di persuadere dei nudi dati economici. Che invece Harris non è stata in grado di mettere in mostra efficacemente. 

Le ultime settimane sono state dominate dalla presunta stima per Hitler di Trump, da Porto Rico «isola della spazzatura», dalla sola spazzatura che sono «i sostenitori di Trump» (parola di Biden), poi dall’ex presidente con pettorina che guida il camion della nettezza urbana, dimostrandosi per l’ennesima volta il politico più veloce del mondo a trasformare le incaute parole degli avversari in meme energetici per la sua base. 

Si è slanciato nell’ultima bassezza retorica l’altra notte, intervistato da Tucker Carlson, quando ha detto che l’ex repubblicana Liz Cheney, un «falco di guerra», dovrebbe essere messa davanti a un plotone armato: «Vediamo come si sente quando testano le armi sulla sua faccia». Difficile, in questo contesto, far valere le ragioni dell’economia.

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