Joe Biden potrebbe sbarcare finalmente a Pechino a novembre, quando sarà ancora in carica dopo che gli americani avranno eletto il nuovo inquilino della Casa Bianca, che si tratti della sua vice Kamala Harris o del rivale repubblicano Donald Trump.

Anche di questo hanno discusso mercoledì 28 agosto il consigliere per la Sicurezza nazionale Usa, Jake Sullivan, e il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi. Così il leader democratico non seguirebbe le orme del suo predecessore (e compagno di partito) Jimmy Carter, che rimarrebbe l’unico presidente degli Stati Uniti a non aver effettuato una visita di stato nella Repubblica popolare cinese.

I quattro anni di Biden alla Casa Bianca sono trascorsi però in un crescendo di tensione, tra embargo hi-tech, sanzioni legate alla guerra in Ucraina, fino al parossismo causato dalla visita, il 2 agosto 2022, di Nancy Pelosi a Taipei, e dall’abbattimento di un pallone spia cinese nei cieli Usa il 4 febbraio 2023.

Ricevendo Sullivan – che conclude giovedì la sua missione di tre giorni a Pechino – Wang gli ha ricordato che quella di Taiwan «è la prima linea rossa che non deve essere superata nelle relazioni Cina-Stati Uniti». Wang ha aggiunto che gli Stati Uniti dovrebbero «smettere di armare Taiwan e sostenere la pacifica “riunificazione” della Cina», che «Taiwan appartiene alla Cina e che l’indipendenza di Taiwan è il rischio più grande per la pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan».

Il faccia a faccia tra Sullivan e Wang rientra nelle iniziative che dovrebbero rafforzare il “guardrail” piantato da Biden e Xi durante il summit in California del 15 novembre scorso. Tuttavia Cina e Stati Uniti da tempo non si accordano più su cose da fare assieme, ma semplicemente sul modo di limitare i danni di una relazione diventata tossica. Ogni volta che i due si sono ritrovati hanno parlato per una decina d’ore, di questioni bilaterali, regionali e globali. Ma l’intento – riferiscono fonti della Casa Bianca – è ormai limitato a «chiarire le percezioni errate ed evitare che questa competizione si trasformi in conflitto».

Un consigliere per la Sicurezza nazionale Usa mancava dalla capitale cinese da ben otto anni (Susan Rice nel 2016 era stata l’ultima), uno dei tanti segnali delle crescenti difficoltà che sta incontrando il cosiddetto “dialogo strategico”, tra la potenza in ascesa e quella (ex) egemone sulle questioni più esplosive che le dividono: Taiwan, la guerra in Ucraina, le dispute territoriali nel Mar cinese meridionale.

Qualche progresso continua a registrarsi sulla lotta congiunta al traffico di narcotici (in particolare sulle sostanze chimiche esportate dalla Cina e utilizzate per produrre il Fentanyl che fa strage negli Usa), nel dialogo tra i vertici dei rispettivi eserciti, che era stato sospeso da Pechino dopo la “provocazione” di Pelosi, e sull’intelligenza artificiale, in particolare sulle sue possibili limitazioni nelle applicazioni militari.

600 aziende nella lista nera

Sui dossier globali più scottanti però Pechino e Washington sono su due fronti contrapposti. A cominciare dalla guerra in Ucraina, con Washington e la Nato che ormai accusano apertamente Pechino di sostenere l’apparato bellico di Mosca.

Lo scorso fine settimana – proprio mentre veniva annunciato il viaggio di Sullivan – il dipartimento del Commercio ha aggiunto alla sua “Entity List” una quarantina di compagnie cinesi accusate di inviare oltre frontiera componenti elettronici utilizzati negli armamenti russi, che per questo non potranno più avere relazioni commerciali con gli Usa senza autorizzazione preventiva. Il bando si applica non solo alla tecnologia made in Usa, ma anche a quella di altri paesi che contenga almeno il 25 per cento di valore aggiunto statunitense e perfino che sia semplicemente transitata dagli Usa.

Sono salite così a oltre 600 le aziende cinesi nella Entity List. In molti casi l’inclusione nella lista nera può avere un effetto devastante per le entità colpite dal bando (tra le quali figura il colosso Huawei), tagliandole fuori dagli scambi internazionali, dal momento che i paesi terzi temono di finire indirettamente vittime delle sanzioni.

Per questo motivo Pechino ha protestato contro l’ultimo aggiornamento della Entity List avvertendo che «adotterà le misure necessarie per salvaguardare fermamente i diritti e gli interessi legittimi delle imprese cinesi». Wang ieri ha chiesto a Washington di «smettere di mettere a repentaglio gli interessi legittimi della Cina».

Pacifico militarizzato

Con la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina avanza anche la militarizzazione degli hotspot che contrappongono Pechino e Washington nel Pacifico. Il governo di Taipei ha annunciato la settimana scorsa la costruzione di cinque nuove basi (quattro nel sud e una nell’est di Taiwan) che saranno operative entro tre anni e ospiteranno i missili anti nave “Harpoon” forniti dagli Stati Uniti all’isola per proteggersi da un’eventuale attacco dell’Esercito popolare di liberazione.

Mentre Lunedì, la Guardia costiera cinese ha fronteggiato due navi filippine che si erano “introdotte” nelle acque al largo di Sabina Shoal, nel terzo scontro tra le imbarcazioni di Pechino e Manila in una sola settimana nel Mar cinese meridionale.

Una collisione simile si era verificata anche il 19 agosto, quando Washington aveva accusato la Cina di «manovre sconsiderate» e a riaffermare il proprio impegno a difendere il proprio alleato in caso di scontro sui territori contesi.

Sul suo profilo WeChat Zheng Yongnian ha sostenuto che l’Asia rischia di diventare una polveriera che potrebbe far scoppiare la III Guerra mondiale. Secondo l’influente accademico dell’Università di Hong Kong - che attribuisce agli Stati Uniti la responsabilità delle crescenti tensioni nella regione - ci sono tutti gli elementi chiave per questa deflagrazione: interessi economici, coinvolgimento degli Stati Uniti, sforzi per creare un equivalente asiatico della Nato, nonché la modernizzazione militare e il nazionalismo della Cina.

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