- Il 6 gennaio ricorre l’assalto a Capitol Hill, la rivolta avvenuta a Washington un anno fa da parte dei sostenitori dell’uscente Donald Trump che contestavano il risultato delle elezioni presidenziali. A Washington la commissione d’inchiesta sta facendo dei piccoli passi avanti ma procede a compartimenti stagni lasciando spazio alla propaganda dei repubblicani sul broglio elettorale.
- Un sondaggio commissionato dal quotidiano The Washington Post non solo ha certificato la vistosa presa che questa narrazione ha nel mondo repubblicano, ma ha anche rivelato che un americano su tre approverebbe l’uso della violenza, tipo quella del 6 gennaio, se il popolo si sentisse tradito e preso in giro “dai politici”.
- Vediamo cosa succederà il giorno sei, quando Joe Biden, Kanala Harris, Nancy Pelosi parleranno in cerimonie ufficiali. Vediamo se scalderanno i cuori e, soprattutto, se daranno la carica. Parlerà anche, in una conferenza stampa, Donald Trump, dalla sua residenza di Mar a Lago in Florida.
Giornataccia, dal punto di vista atmosferico. Freddo, nebbia e un cielo diventato nero già nel primo pomeriggio. Non ci sono belle notizie in giro: Omicron avanza inesorabilmente, anche qui a San Francisco. La città, che aveva timidamente cominciato a riavere la vita sociale e la joie de vivre per cui un tempo era famosa, è tornata nella desolazione.
Alla vigilia del primo anniversario del 6 gennaio, non ci saranno appuntamenti di popolo per “ricordare”, “perché non succeda mai più”, o “perché qui non potrà mai succedere”. Non ci sarà niente, e non è un bel segno, perché la città che nell’immaginario collettivo è l’antitesi dell’America del 6 gennaio, purtroppo non ha niente da dire.
A Washington invece la commissione d’inchiesta sull’assalto al Campidoglio da parte dei sostenitori dell’ex presidente Donald Trump pare stia facendo dei piccoli passi avanti: ha acquisito nuove prove delle responsabilità di Trump in quel pomeriggio fatale, in particolare il suo rifiuto di intervenire e bloccare la violenza, cosa che potrebbe portarlo all’incriminazione.
Un’inchiesta parziale
In questo caso, le prove raggiunte dalla commissione d’inchiesta verranno consegnate all’attorney general Merrick Garland, nominato dal presidente Joe Biden, che però non sembra un investigatore particolarmente aggressivo o tenace. Tutto l’esplosivo fascicolo sull’insurrezione, nelle mani del suo ufficio, ha finora prodotto pochi risultati: su circa duemila identificati dell’assalto, e su 700 fermati, appena 71 di loro hanno avuto sentenze di condanna, e solo 34 di queste hanno comportato il carcere, per una durata media di 130 giorni: poca roba.
La condanna più alta l’ha avuto finora il famoso sciamano di QAnon che divertì il mondo con i suoi tatuaggi e il copricapo con le corna e la pelliccia: quattro anni di carcere per violazione di edificio pubblico e comportamento irriguardoso, ma assolto da accuse specifiche di violenza. Lo sciamano si è dichiarato pentito, il suo avvocato ha prodotto in aula un certificato della Marina presso cui il suo assistito aveva prestato servizio, che parlava di disturbo bipolare; la richiesta dello sciamano stesso a Trump di graziarlo, dato che aveva agito su suo impulso, non è più stata ricordata («Trump non è più nei pensieri del mio assistito»).
Tutta la parte che riguarda l’organizzazione dell’evento, il finanziamento dei viaggi, l’acquisto di armi, la strategia dell’irruzione e il ruolo dei gruppi neonazisti e suprematisti bianchi come “Proud Boys” e “Oath Keepers”, sono rimasti sullo sfondo del processo.
Insomma, molto lascia pensare che Garland se la prenda comoda e che tenda a diluire, spezzettare, ridurre la natura di quello che è successo. Questo permette alla propaganda repubblicana non solo di dare la propria interpretazione dei fatti («non c’era nulla di preordinato»), ma in sostanza di derubricare l’accaduto a una spontanea reazione a un torto: il broglio elettorale subito a opera dei democratici.
Il fascismo legale
L’argomento viene ripetuto, con varie tonalità, ogni giorno, dai media repubblicani. Con dei risultati: ha destato un notevole allarme un recentissimo sondaggio commissionato dal quotidiano The Washington Post che non solo ha certificato la vistosa presa che questa narrazione ha nel mondo repubblicano, ma ha anche rivelato che un americano su tre approverebbe l’uso della violenza, tipo quella del 6 gennaio, se il popolo si sentisse tradito e preso in giro “dai politici”; quello che noi appena ieri chiamavamo la “casta” e che in America è identificato con “i socialisti”, “i froci e le lesbiche”, “i californiani” e i “nigger lovers”.
Brutto, bruttissimo sondaggio, una sorta di assoluzione preventiva per quello che potrà succedere, a partire già dalle elezioni del 2022, che poi non sono così lontane: le primarie per la scelta dei candidati cominciano ufficialmente tra poche settimane.
C’è dunque questo clima, è qualcosa di palpabile. Il New York Times domenica scorsa ha pubblicato un corposo, e direi storico, editoriale, intitolato Ormai è un 6 gennaio quotidiano, in cui non solo si dichiara la democrazia americana in pericolo, ma si comincia a dettarne il necrologio. Si sta andando, dice l’articolo sottoscritto da tutta la direzione del giornale, verso una guerra civile, in cui già 19 stati, a governo repubblicano, sull’onda di leggi che loro stessi hanno appena votato, si rifiuteranno di convalidare le prossime elezioni se queste verranno vinte dai democratici.
Siamo entrati nella fase del «fascismo legale», aggiunge il San Francisco Chronicle (un tempo influentissimo giornale, oggi distrutto da internet, ma fortunatamente alla ricerca di una nuova ragion d’essere); anche qui, uno storico editoriale, che dà molto credito agli studi di Jason Stanley, professore a Yale, sulla nascita e sulle trasformazioni dei fascismi.
Molto pregnante una citazione da un discorso di Toni Morrison, la prima afroamericana a vincere il premio Nobel per la letteratura, nel 1993: in una conferenza accademica su razzismo e fascismo in America, Morrison disse: «Teniamo a mente che prima della soluzione finale, c’è sempre una prima soluzione, poi ce n’è una seconda, addirittura una terza. Il movimento verso la soluzione finale non è un salto: è un passo, poi un altro passo, poi un altro». Primo Levi fece analoghe riflessioni sul fascismo europeo.
Secondo Stanley, il fascismo americano, sempre esistito, è «la tentazione di risolvere, con una tirannia, il problema nazionale irrisolto del razzismo». È una pulsione diffusa, che ha alti e bassi, e che si nutre della paura della «ribellione nera»: per fronteggiare l’evento che i fascisti bianchi considerano l’inevitabile castigo per la colpa loro e dei loro padri; sanno che arriverà, cercano soluzioni, all’inizio legali, per fronteggiarla.
Per esempio, la soppressione del diritto di voto, la delega alla polizia di uccidere, la demonizzazione culturale, la segregazione scolastica e abitativa di fatto, l’incoraggiamento ad armarsi. L’anno scorso c’è stata un’accelerazione; quello che ha più spaventato Trump e i suoi finanziatori, non è stata solo la possibilità di perdere il potere, ma è stato il Black Lives Matter, la storica protesta seguita alla morte “in diretta televisiva” di George Floyd che ha segnato la storia recente dell’America.
Non solo i neri avrebbero vinto le elezioni, ma presto sarebbero entrati nelle case dei bianchi per vendicarsi. Bisognava fare sapere a tutti che il mondo bianco non lo avrebbe permesso. Bisognava far sapere che rispondere con la violenza a questa possibilità, era non solo ammissibile, ma “legale”. E questo, direbbe Toni Morrison, è un altro passo verso la “soluzione finale”.
D’ora in poi, chi sarà chiamato a votare dovrà farlo tenendo conto che questo è il pericolo. Quindi, ci devono essere leggi che impediscano ai neri di prendere il potere, bisogna che ci siano eroi da contrapporre, bisogna che venga dato l’esempio. Questa è, secondo Stanley, la «fase del fascismo legale», che l’America sta vivendo. E cita un episodio, che credo in Italia sia poco conosciuto.
Un 17enne bianco di nome Kyle Rittenhouse, l’anno scorso, durante disordini a Kenosha, Wisconsin, dove era stato paralizzato dalla polizia l’afroamericano Jacob Blake, partì da casa sua (peraltro in un altro stato, l’Illinois) con un fucile mitragliatore, l’ormai famigerato Ar 15, che gli era stato regalato dai genitori, e uccise due manifestanti di sinistra. Al processo disse di averlo fatto «per difendere la proprietà privata». È stato assolto. Il suo volto, innocente, paffuto, ingenuo, è quello del nuovo eroe americano. Ha cancellato George Floyd, la cui bambina di sei anni, appena l’anno scorso, ebbe l’impudenza di dire «daddy ha cambiato il mondo».
Oh, che brutto anniversario. Ma, vediamo cosa succederà il giorno sei, dove Biden, Kanala Harris, Nancy Pelosi parleranno in cerimonie ufficiali. Vediamo se scalderanno i cuori e, soprattutto, se daranno la carica. Parlerà anche, in una conferenza stampa, Donald Trump, dalla sua residenza di Mar a Lago, in Florida. Si sa già quel che dirà: «Non c’è stato nessun 6 gennaio, la vera mostruosità è stata il 3 novembre, quando i democratici mi hanno rubato le elezioni. E questo non si ripeterà».
Quanti anni passarono dal putsch della birreria di Monaco al trionfale 1933? Dieci. Quindi, non diamoci per perduti. Si può ancora fare qualcosa; non manca la voglia.
Enrico Deaglio è l’autore di Cose che voi umani, Marsilio editore, 2021. Una cronaca del passato e del futuro dell’insurrezione del 6 gennaio a Washington, vista con gli occhi della fantascienza e della letteratura.
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