Con un occhio al rapprochement tra Russia e Stati Uniti e ai dazi di Trump, la Cina mette in scena le due sessioni (liănghuì), aperte ieri a Pechino dalla Conferenza politica consultiva del popolo cinese (Cpcpc) alla quale segue, oggi, l’Assemblea nazionale del popolo (Anp). Da quest’ultima il premier, Li Qiang, indicherà per il 2025 un obiettivo di crescita del Pil intorno 5 per cento. Di più, col commercio internazionale terremotato da Trump e una domanda interna debole, la Cina non può fare.

Le tariffe di Trump sulle importazioni negli States preoccupano: quelle contro la Cina, entrate in vigore ieri, sono state raddoppiate, dal 10 al 20 per cento. Pechino ha risposto il giorno stesso con contro-dazi addizionali del 10-15 per cento su una serie di prodotti agroalimentari Usa (tra cui pollame, grano e mais), nonché aggiungendo 15 compagnie Usa del settore difesa alla sua lista nera. Una reazione simbolica: presto la Cina tratterà, aspettando che altri quattro anni di governo disfunzionale a Washington finiscano per favorire la Nuova era di Xi (speculare al MAGA) e i suoi obiettivi interni e globali. Il portavoce dell'Assemblea nazionale del popolo cinese Lou Qinjian ha afferma che Pechino «è disposta a risolvere le preoccupazioni internazionali attraverso il dialogo e il negoziato con gli Stati Uniti sulla base del rispetto reciproco, dell'uguaglianza e della reciprocità. Tuttavia non accetteremo mai pressioni o minacce e salvaguarderemo fermamente la nostra sovranità nazionale, la sicurezza e gli interessi di sviluppo».

Insomma, dōngshēng xījàng, dicono a queste latitudini: l’Oriente è in ascesa, l’Occidente in declino. Sulle due plenarie aleggia l’effetto DeepSeek, l’intelligenza artificiale cinese che compete con quella Usa, giunta al culmine di un decennio (quello coperto dal piano Made in China 2025) e di un lustro (quello del XIV Piano quinquennale, 2021-2025) in cui la manifattura nazionale ha compiuto passi da gigante.

Il tycoon come Nixon?

L’allineamento di Trump alla Russia è, mutatis mutandis, simile a quello che Nixon inaugurò con il suo viaggio a Pechino nel 1972. Allora Washington voleva evitare che la Cina maoista si riavvicinasse all’Unione Sovietica, ora prova ad allentare le relazioni bilaterali, fiorite durante i governi di Xi e Putin. A svelare questa strategia è stato Marco Rubio. A Breitbart News il segretario di Stato ha parlato di una Russia «sempre più dipendente dalla Cina, che non penso rappresenti un buon risultato. Una Russia che diventasse un partner subordinato permanente della Cina rappresenterebbe un problema per gli Stati Uniti, con due potenze nucleari allineate contro».

Da Pechino hanno replicato che nulla separerà i due paesi, che condividono una frontiera di 4.300 chilometri. E, dopo l’invito di Putin a Xi a partecipare, il 9 maggio, alla Giornata della vittoria a Mosca – dove potrebbe esserci anche Trump – è arrivato quello di Xi a Putin per presenziare a una grande parata militare (evento rarissimo in Cina) che si terrà a Pechino il 3 settembre, quando ricorreranno ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale.

La Cina «è preoccupata di un rapido rapprochement Usa-Russia, perché legami più stretti tra i due paesi metterebbero a disagio Pechino, che ha investito tanto nelle relazioni bilaterali con la Russia, sia in termini di espansione commerciale che di capitale diplomatico», ha spiegato Yu Jie. Secondo la senior research fellow di Chatham House, la Cina si terrà a una certa distanza da eventuali negoziati, anche per «la mancanza di fiducia delle élite europee», che non vuole alienarsi ulteriormente. Né proverà a sfruttare la frattura transatlantica, perché non vuole che Trump inasprisca di conseguenza il containment contro la Cina. L’Ucraina – sulla quale Pechino nei mesi scorsi si era mostrata attiva – può aspettare, perché, con l’iniziativa filo Putin presa da Trump, la Cina dovrà praticare questo difficile equilibrismo.

E allora, lo sviluppo economico prima di tutto. La decina di giorni durante i quali la Cpcp e l’Anp si riuniscono ogni anno rappresentano una rara opportunità per osservare l’opaca politica cinese. I 2.977 rappresentanti dell’Anp approveranno le leggi promosse dal partito, mentre i 2.169 delegati della Cpcpc si confronteranno con la sua leadership per conto delle diverse categorie sociali. Si punta a ridare fiducia al settore privato, che genera il 50 per cento delle entrate fiscali, il 60 del Pil, il 70 dell’innovazione e l’80 degli impieghi urbani. E nel quale sbocciano le startup che – dai droni all’intelligenza artificiale, dalle auto elettriche agli smartphone – stanno cambiando gli equilibri della globalizzazione.

Il 17 febbraio Xi Jinping ha ricevuto nella Grande sala del popolo i magnati dell’hi-tech. C’erano il presidente di BYD, Wang Chuanfu, il fondatore di Huawei, Ren Zhengfei, l’amministratore delegato di Xiaomi, Lei Jun, e quello di Tencent, Ma Huateng, il presidente di CATL, Zeng Yuqun, e il riabilitato Jack Ma, patron di Alibaba.

Xi ha suonato la carica: «È il momento giusto affinché la maggior parte degli imprenditori privati dimostrino il proprio talento». Una svolta a U dal retrogusto maoista, dopo che aveva voluto la campagna contro la “espansione disordinata del capitale” che, tra multe e Ipo bloccate all’ultimo istante, nel 2021-2023 ha polverizzato migliaia di miliardi di capitalizzazione azionaria di società diventate per il partito troppo grandi finanziariamente e troppo indipendenti ideologicamente.

La fabbrica del mondo

Nei prossimi giorni l’Anp approverà la “Legge per la promozione dell’economia privata”, che servirà a proteggerla dalle estorsioni delle autorità locali, le cui entrate dalla vendita di terreni sono state prosciugate dalla crisi del settore immobiliare. Si prova così a sostenere la domanda da parte delle aziende, mentre per i consumatori sono previsti sussidi e rottamazioni, e un miglioramento del welfare. Le misure monetarie e fiscali rimarranno prudenti, perché lo stimolo del 2008 – 30.000 miliardi di yuan immessi nel sistema – insegna che possono produrre corruzione, sprechi ed eccesso di capacità.

Pechino intende lanciare un forte messaggio di apertura: all’interno (anche permettendo limitati investimenti stranieri nelle telecomunicazioni, nella sanità e nell’istruzione) e all’estero, proponendosi come contraltare al protezionismo trumpiano. In entrambi i casi, per tenere il capitalismo globale legato alla “fabbrica del mondo”.

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