«Il presidente della Cidca incontra il vicepremier kirghizo» (6 febbraio); «Il presidente della Cidca incontra il nuovo ambasciatore del Vietnam in Cina» (23 gennaio); «Il presidente della Cidca incontra il consigliere per gli affari esteri del governo ad interim del Bangladesh» (21 gennaio). I resoconti sul suo sito internet certificano l’attivismo della China International Development Cooperation Agency, grazie alla quale Pechino è pronta a riempire il vuoto lasciato dalla chiusura (sub iudice) di Usaid, decretata da Donald Trump.

Al Partito comunista (Pcc) la cancellazione definitiva dell’ente voluto nel 1961 da John F. Kennedy per contrastare l’influenza sovietica – che nel 2024 ha speso 5,2 milioni di dollari per progetti su democrazia, diritti umani e governance in Cina – regalerebbe un duplice vantaggio, interno e internazionale.

A subirne i contraccolpi sarebbero anzitutto decine di organizzazioni non governative finanziate da Washington attraverso Usaid: si va da China Labour Watch, che da 25 anni rivela ai media internazionali informazioni sullo sfruttamento nelle fabbriche cinesi, alle associazioni che documentano le politiche sulle minoranze uigure, tibetane, mongole, a quelle che monitorano le violazioni dei diritti dell’uomo.

Gruppi che il Pcc considera strumenti per fomentare “rivoluzioni colorate”, e che per questo ha silenziato con la legge nazionale sulle ong del 2017 e quella sulla sicurezza nazionale di Hong Kong del 2020. Alcuni attivisti sono riusciti a rimanere attivi clandestinamente, ma ora rischiano di ricevere il colpo di grazia da Trump, che ha bollato Usaid come gestito «da un gruppo di pazzi radicali», mentre Elon Musk rilanciava su X: «È un’organizzazione criminale per la quale è arrivato il momento di morire».

Via della Seta

L’idea di Elon Musk e del suo dipartimento per l’efficienza governativa (Doge) è quella di accorpare al dipartimento di stato Usaid, il cui personale passerebbe da 10.000 a 294 unità.

Ma, ancor più che in Cina, è nel resto del mondo che la fine di Usaid potrebbe danneggiare l’immagine degli States. Perché la sostituirebbe, almeno parzialmente, la China International Development Cooperation Agency (Cidca), istituita nel 2018, immediatamente dopo quel XIX congresso del partito che ha dichiarato urbi et orbi le ambizioni globali (economiche e diplomatiche) della “Nuova era” inaugurata da Xi Jinping.

Sul sito internet (attualmente oscurato) di Usaid la Cidca veniva descritta come «il fondo d’influenza cinese da contrastare», con l’obiettivo di «rafforzare partner in grado di resistere alle pressioni del Pcc e di altri attori malvagi».

Sotto anonimato, un funzionario del ministero dell’economia di Pechino ha spiegato alla stampa di Hong Kong che «la soppressione di Usaid avvantaggerà la promozione dell’immagine della Cina e rafforzerà la sua presenza nel mondo in via di sviluppo».

Pur con una lingua ostica, privo di una sua Hollywood e senza il rock and roll, il “softpower” cinese farà leva sulle aziende di stato, grazie alle quali nei paesi del sud globale costruisce infrastrutture, scuole e ospedali.

La Cidca si occupa di spendere i fondi destinati agli aiuti all’estero dai ministeri degli esteri e del commercio. Ispirata proprio alla Usaid, l’agenzia cinese di cooperazione allo sviluppo avanza con il vento in poppa della Belt and Road Initiative (Bri), la principale strategia di politica estera cinese, lanciata nel 2013.

In un’intervista a Phoenix TV, il vicepresidente della Cidca ha dichiarato: «Non ci comporteremo come alcuni paesi che lasciano improvvisamente senz’aiuto i destinatari dell’assistenza». Hu Zhangliang ha aggiunto che la Cina aumenterà gli investimenti nello sviluppo internazionale e migliorerà il suo approccio agli aiuti esteri.

Obiettivo Africa 

Tra gli obiettivi di Usaid c’era anche quello di mappare gli investimenti all’estero della Cina, attraverso il gruppo di ricerca AidData, rispetto ai quali, in mancanza di un osservatorio alternativo, Washington brancolerebbe nel buio. Pechino spende circa 10 miliardi di dollari in aiuti allo sviluppo, un quarto rispetto a quanto stanziato da Washington nel 2024.

Se politici e analisti negli States fanno notare che, a causa del rallentamento della crescita, è improbabile che la Cina possa incrementarne l’ammontare, va altresì ricordato che le economie più avanzate attraversano difficoltà altrettanto gravi e per questo stanno diminuendo sensibilmente le donazioni, concentrandole su Ucraina e rifugiati.

Infatti nel 2024 i primi dieci dei 32 paesi donatori raggruppati nel Development Assistance Committee (Dac) dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Oecd) hanno tagliato significativamente i grant rispetto all’anno precedente. Tra questi, gli Stati Uniti – già prima del ritorno di Trump alla Casa Bianca – hanno diminuito di oltre 2 miliardi di dollari di aiuti all’Africa e all’Asia, la Germania 4,8 miliardi di euro e la Francia circa un miliardo.

Parallelamente, durante il Forum sulla cooperazione Cina-Africa del 2024, Xi si è impegnato pubblicamente a contribuire con 50 miliardi di dollari in tre anni (2025-2027) allo sviluppo economico e infrastrutturale dell’Africa. La Cina sta emergendo anche come prestatore di spicco nei finanziamenti di ultima istanza, fornendo liquidità d’emergenza ai paesi in crisi debitoria. La Banca centrale ha stipulato vari accordi di swap valutario, mentre la Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib) ha aggiunto altri potenziali membri africani, tra cui Togo e Kenya.

E se i denari per le donazioni vere e proprie non sono più abbondanti come un tempo, la Cidca dimostra di saper fare di necessità virtù. Negli ultimi giorni, in occasione del decimo anniversario dell’istituzione del suo Global Development and South-South Cooperation Fund, ha lanciato i progetti “piccoli e intelligenti”. La filosofia è la stessa che anima il rilancio della Bri: basta finanziamenti a pioggia, concentrarsi su opere green e hi-tech.

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