Secret Honor è un film di Robert Altman basato su un racconto omonimo che rende chiaro e intelleggibile il complesso personaggio di Richard Nixon e la controversa presidenza. Un monologo in cui l’”attore Nixon” ripercorre la travagliata e singolare vita politica: lo scandalo Watergate, ma anche i rapporti con Eisenhower, Kissinger e Kennedy, gli incontri con Fidel Castro e Chruscev.

Come nella rappresentazione cinematografica, anche nella realtà politica Nixon è stato una figura che ha polarizzato, diviso, separato e acceso gli animi di sostenitori e detrattori: una dicotomia visibile anche sul piano elettorale, in cui ha vinto e ha perso per un’inezia nel 1960 e nel 1968.

Nel 1960 ottenne la nomination repubblicana per acclamazione (le primarie seriali sarebbero arrivate più tardi), ma perse per un soffio contro il rampante JFK (lo 0,17 per cento) pur prevalendo in un numero maggiore di stati. Tragica fu la prestazione televisiva nel primo dibattito contro “John”, un doppio smacco per un brillante oratore che da giovane primeggiava nelle competizioni scolastiche. Talento che mise in atto nel celebre “discorso di Checkers” del 1952 in cui si difese in tv entrando nel merito delle accuse di finanziamenti illegali/immorali e accrescendo la sua popolarità mostrando di padroneggiare retorica e politica.

Lo slogan 

La sfida contro Kennedy fu dura con toni aspri. “Comprereste un’auto usata da questo uomo?” fu lo slogan democratico per contrastare e contestare Nixon. La domanda retorica, efficace e polarizzante, faceva perno sulla reputazione di imbroglione che una parte della società alimentava. Tricky Dicky il nomignolo appiccicatogli per i mezzi sleali utilizzati, secondo la sfidante, durante la campagna per il Congresso nel 1946.

Dopo la Casa Bianca tentò di ottenere la guida della California, ma le elezioni per Governatore non furono meno negative e per un lustro Nixon ridusse la presenza pubblica. Tornò alla carica ottenendo la candidatura per il 1968 sconfiggendo il governatore di New York Nelson Rockfeller e quello della California Ronald Reagan. Inoltre, la partita dei democratici si complicò per la decisione di Lyndon Johnson di non contendersi il secondo mandato e della conseguente aspra diatriba che si consumò alla Convention democratica di Chicago nonché dall’omicidio di Robert Kennedy.

Nixon prevalse, ma di poco. Sconfisse il vicepresidente uscente Hubert Humprey e l’ultraconservatore e segregazionista governatore dell’Alabama George Wallace. Anche in virtù di questa tripartizione, il margine di vittoria fu minimo, lo 0.7 per cento pari a circa mezzo milione di schede. Uno dei dati più bassi in percentuale (43,4 per cento) che verrà eguagliato in negativo solo da Bill Clinton nel 1992.

Nixon vinse grazie a una campagna elettorale innovativa, condotta da specialisti che proposero indagini di mercato del voto, spot dedicati per fasce di popolazione e segmentati secondo le caratteristiche socio-economiche e demografiche. Inoltre, pesò l’esperienza quasi decennale di vicepresidente sotto l’ala protettiva e l’egida di Eisenhower (“Ike” and “Dick”) iniziata a 39 anni, con una familiarità in politica estera; era stato deputato e senatore della California, lui che era nato nell’Orange County, una contea molto conservatrice.

I “dimenticati”

Ma fu con le proposte per “gli americani che lavorano” e i “dimenticati” che Nixon attirò e confermò il voto per i repubblicani rivolgendosi all’America dei valori tradizionali. Orientandosi al ceto medio e alle preoccupazioni derivanti dall’andamento dell’economia, dagli strascichi della guerra in Vietnam e dai residui culturali e politici dell’ondata di protesta per i diritti civili e per la pace avanzate dalla sinistra nonché dalla “Grande società” di impianto roosveltiano. Nixon doveva barcamenarsi tra la sfida democratica e la spina nel fianco di Wallace che mirava a presidiare l’elettorato più reazionario cui peraltro ammiccava il candidato vicepresidente, Spiro Agnew, che non pochi problemi diede a Dick per le sue intemerate contro i gruppi etnici e le minoranze.

Tanto che il New York Times la definì la scelta politica più eccentrica dopo la nomina senatoriale fatta da Caligola al suo cavallo. Nixon riuscì a prevalere in diversi stati del sud e il Sunbelt divenne territorio privilegiato dell’azione nixoniana, in quelle aree a prevalenza del settore terziario e neoindustriale che, anche grazie a un forte sostegno pubblico, si concentravano su turismo, petrolio e industria aerospaziale, e che correvano da una costa all’altra, dalla California alla Florida.

Le elezioni del 1968 segnarono la permanenza del voto diviso (la scelta dell’elettore, quasi il 30 per cento, di premiare i candidati in base alle loro caratteristiche anche se provenienti da partiti diversi nella corsa per la presidenza e per il Congresso).

La conseguenza fu il ferreo controllo democratico del legislativo e una presidenza costretta a confrontarsi con il governo diviso. Inoltre, il contesto interno rimaneva problematico per le turbolenze sociali, la crisi economica, il peggioramento della bilancia commerciale, la crescita dell’inflazione e della disoccupazione.

Ne derivarono migliaia di scioperi, manifestazioni, proteste, legali e illegali. Il tutto appesantito e aggravato dalla guerra in Vietnam che rimaneva il cuore pulsante delle problematiche sociali e delle rivendicazioni.

Nixon pensò di affrontare le tensioni attraverso una massiccia azione di repressione del dissenso specialmente nei confronti del movimento nero attraverso l’Fbi; viceversa, dovette scendere a compromessi sul piano sociale tanto da non procedere allo smantellamento del welfare state. I tratti caratteriali e le profonde convinzioni politiche, nonché il contesto, non agevolarono azioni conciliative, ma anzi esacerbarono le tensioni come certificato dall’utilizzo decisamente sopra la media del potere presidenziale di veto con cui Nixon tentava di sabotare il legislativo.

In aggiunta, ricorse spregiudicatamente all’impoundment, uno strumento frutto di prassi che consentiva (la riforma del 1974 lo abolì) al presidente di bloccare le spese approvate dal Congresso sulla base di “fondate motivazioni”, spesso interpretate da Nixon in forma estensiva e pretestuosa, ma con il risultato di bloccare importanti azioni in ambito sociale. Stante i problemi del governo diviso, Nixon si attivò per una “presidenza amministrativa” tentando di superare il Congresso, sebbene non potesse “andare in pubblico”, facendo appello al popolo, in assenza di una risorsa carismatica tipica di Eisenhower e Roosevelt prima di lui.

La politica estera 

Nell’adozione di questa strategia Nixon ricorse ai consigli di un moderno Principe. Come Kennedy aveva attinto alla sapienza di Arthur Schlesinger, Nixon si affidò alle analisi e alle conoscenze di storia e diplomazia di Henry Kissinger (nominato Segretario di Stato) il cui realismo allontanò gli Usa da prospettive isolazioniste o interventiste per attestarsi su un pragmatico equilibrio di potenza, giocate anche su questioni simboliche tecnologiche come il primo uomo sulla Luna.

Del resto, alcuni dei riconosciuti successi sono giunti dalla politica estera. Storiche le visite nel 1972 a Pechino e Mosca, e i relativi incontri al vertice con Leonid Brezhnev che produssero un trattato per limitare le armi nucleari strategiche (Salt I); e il breve incontro con Mao preceduto dalla cosiddetta diplomazia del ping-pong. Nel 1973 raggiunse un accordo con il Vietnam (del Nord) ponendo fine al coinvolgimento Usa in Indocina. Nel 1974, infine, proprio Kissinger guidò i negoziati per il disimpegno Israele da un lato Egitto e Siria dall’altro.

Non solo azioni edificanti, ma anche molta deliberata e disinvolta diplomazia per contenere il comunismo, specialmente nel continente americano. Un esempio lampante è il golpe cileno del 1973 con la conclamata partecipazione della Cia, e la spinta di Kissinger presso Nixon proprio per evitare che il «modello Allende potesse diventare insidioso», come riportano documenti desecretati.

La maggioranza silenziosa

Le presidenziali del 1972 registrarono una delle vittorie più ampie della storia elettorale dal 1932, seconda sola a quella di Roosevelt nel 1936. Nixon vinse in 48 stati e raccolse il 61 per cento dei consensi contro George McGovern.

L’appello di Nixon alla “maggioranza silenziosa”, la parte conservatrice e bianca della popolazione, aveva prodotto buoni frutti stante i richiami al patriottismo e alla “pace con onore” con il Vietnam, al lavoro. In quest’ultimo caso incrinando il rapporto privilegiato dei democratici con il sindacato che per la prima volta negò l’appoggio ufficiale al candidato dell’Asinello giudicato troppo movimentista.

Nonostante la schiacciante vittoria presidenziale, i democratici conservarono il controllo del Congresso e accentuarono la tendenza centralizzatrice e difensiva di Nixon.

L’onta del Watergate

In un condominio residenziale sede del comitato elettorale democratico, in piena campagna elettorale irruppero alcuni malviventi. Bob Woodward e Carl Bernstein reporter del Washington Post scoprirono che tra gli arrestati c’erano ex appartenenti al comitato nixoniano e dipendenti della Casa Bianca di una squadra di “idraulici” perché specializzati negli sgocciolamenti, le “perdite” di informazioni sugli avversari del presidente. Che prontamente rigettò ogni coinvolgimento, ma fu costretto a produrre registrazioni dalle quali si evinceva l’istigazione per operazioni di dossieraggio (“voglio solo che irrompano lì e portino via i dossier”) e il tentativo di condizionare le indagini. Ad aggravare la situazione ci furono le dimissioni del vice Agnew, accusato di peculato e corruzione.

La Casa Bianca era di fatto decapitata perché di fronte alla montante polemica e alla probabile approvazione dell’impeachment, stante il voto certo alla Camera e plausibile al Senato, Nixon decise di lasciare. Nelle more procedette alla nomina, approvata dal Congresso, del leader della Camera Gerald Ford quale vicepresidente, che insediatosi alla Casa Bianca concesse la grazia a Nixon il giorno dopo le dimissioni aumentando le divisioni sul caso che permangono ancora oggi (Hillary Clinton era uno degli avvocati della Commissione). Doveva iniziare, disse Nixon, «un processo di guarigione di cui c’è disperatamente bisogno in America». Secret of Honor, Mr Dick.

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