Ha 93 anni, è italiana e ha lottato tutta la vita. Prima contro il fascismo, poi contro la dittatura in Argentina, che le ha portato via Franca, sua figlia. Ora racconta la sua storia nelle scuole: insieme agli studenti analizza il presente, per evitare che si ripetano le tragedie della storia
«Nel settembre 1938 avevo 10 anni, erano appena state varate le leggi razziali. Avevo da poco conosciuto la giustizia, grazie a mio padre che era avvocato, ma di lì a poco conobbi l’ingiustizia». Vera Vigevani Jarach ha 93 anni, è nata a Milano, ma da tanti anni vive in Argentina. Nell’arco della sua vita ha lottato contro due dittature, quella fascista in Italia e quella argentina, trent’anni più tardi.
La prima ingiustizia l’ha conosciuta quando una maestra è andata da sua mamma per avvisarla del fatto che non sarebbe più potuta andare a scuola, perché è ebrea. La prima decisione dei suoi genitori fu quella di trovare un’altra scuola, a Via della Spiga, c’era un maestro fascista che decise di andare contro le leggi di Mussolini e dare lezioni pomeridiane ai bambini ebrei. Ma nel 1939 la madre di Vera comprende quale sia il vero rischio che corre la sua famiglia. Scappano, prima in Palestina, poi in Argentina, a Buenos Aires. «Alcuni amici dei miei genitori ci diedero una grande mano. Mio nonno, invece, decise di non partire. Venne deportato ad Auschwitz e non sapemmo più nulla di lui».
Vera cresce con questo vuoto, rimane in Argentina, diventa giornalista, lavora quarant’anni all’Ansa, si sposa. Il 24 marzo 1976, quando c’è il colpo di stato in Argentina, sua figlia Franca ha solo 15 anni. Organizza iniziative e assemblee, e per questo viene espulsa dal liceo, insieme ad altri 13 studenti. Hanno la possibilità di essere riammessi a patto che riconoscano i loro errori, tutti accettano tranne lei. Venerdì 25 giugno si trova in un bar, telefona al fidanzato dicendogli che ha perso la sua borsetta. Poi scompare nel nulla.
«Franca viene sequestrata e portata alla Esma (il più grande centro di sterminio di Buenos Aires, ndr), insieme ad altri 108 compagni di scuola. Il suo istituto è quello che conta più desaparecidos di tutti». Franca era una militante, faceva parte della Unión estudiantil de secundarias (Ues). Nella sua scuola era molto popolare, una leader: in prima fila per discutere con i professori, organizzare le assemblee. «Era molto testarda. Una sera, poco prima del colpo di stato, tornò a casa e disse al padre che avrebbero occupato la scuola. Mio marito disse più volte che era pericoloso. Lei allora gli ricordò di quando fu lui a occupare l’università, beccandosi sei giorni di carcere. Mio marito rimase in silenzio e lei uscì», racconta Vera.
Che Franca è stata sequestrata, lei e suo marito lo scoprono solo 15 giorni dopo. «Eravamo con mia sorella e mia cognata. Io, essendo giornalista, avevo messo nel telefono un microfono per registrare le telefonate e aspettavamo che qualcuno telefonasse. Un giorno, squilla il telefono: era lei, l’avevano fatta telefonare dalla Esma. I militari erano soliti far chiamare le famiglie pensando che così non si sarebbero più mosse tanto, cosa che naturalmente non accadde. Anzi, è stato il contrario. Le fanno dire che è stata arrestata, che sta bene e che le danno da mangiare. Mio marito le chiede dove fosse, che andava a prenderla. Parlavano in italiano, si sentirono i militari che le ordinarono di parlare spagnolo, per capire cosa stessero dicendo. Franca rispose che gli avrebbero fatto sapere. Poi chiese di me, del suo fidanzato: una telefonata normalissima. Perlomeno sapevamo che era viva, poi mai più niente». La telefonata viene registrata. Molti anni più tardi servirà come prova durante i processi contro la dittatura, in Italia prima e in Argentina dopo.
«La verità sul destino di mia figlia l’ho saputa vent’anni dopo. Nel caso di Franca è stato un volo della morte». Tra il 1976 e il 1983, alcuni dei militanti detenuti nei centri di tortura venivano liberati. Senza alcun criterio preciso, solo come tentativo di placare i familiari dei 30mila desaparecidos: madri e nonne scese in piazza a denunciare quanto stava accadendo nel paese.
«Ogni tanto mollavano qualcuno e loro venivano da noi in piazza, a raccontare quello che sapevano. Un giorno venne una donna, che era stata detenuta alla Esma. Raccontò di Franca, disse che nonostante tutto non aveva perso la sua allegria. Questa donna era stata arrestata insieme al compagno, era incinta. Lui lo uccisero subito, a lei concessero di portare a termine la gravidanza, ma appena nacque le portarono via il bambino. Il suo, tuttavia, fu un caso particolare, perché due anni dopo, quando venne liberata, lo trovò a casa della madre». I militari, infatti, sono soliti appropriarsi dei bambini appena nati e venderli a colleghi o persone vicine al regime. È proprio per questo che si forma anche il movimento delle nonne di Plaza de Mayo: madri o suocere di donne incinte al momento del sequestro. Finora, i nipoti recuperati sono 130, ma ne mancano ancora all’appello circa 400.
«Franca ha vissuto alla Esma meno di un mese. Quindi noi, che per anni avevamo avuto delle speranze, scoprimmo che era stata uccisa già un mese dopo il sequestro. Sapere la verità è stato durissimo, lo è anche dopo tutti questi anni, però è meglio sapere che non sapere niente».
Quarantaquattro anni in marcia a Plaza de Mayo
Un anno dopo il golpe, il 30 aprile 1977, quattro madri hanno deciso di radunarsi a Plaza de Mayo, piazza al centro di Buenos Aires, di fronte al palazzo di governo, per denunciare la scomparsa dei loro figli.
«Molte di noi si conoscevano già, perché andavamo negli stessi posti a chiedere informazioni sui nostri figli scomparsi. Commissariati, ministero, uffici del governo, però le risposte che ci davano erano sempre negative. Una volta, in un ufficio della Casa Rosada (il palazzo del governo, ndr), gli ufficiali mi chiesero se Franca fosse una bella ragazza, risposi di sì e mi spiegarono che alcuni uomini rapivano le ragazze per farle prostituire. Un’altra volta, invece, mi suggerirono di far finta che mia figlia fosse in vacanza», racconta Vera.
Lei, in piazza, va due settimane dopo il primo raduno. È un’altra madre a dirle di andare. Le spiega, mentre sono in un commissariato della città, che si sono organizzate per denunciare pubblicamente. Devono sapere tutti. «È stata una cosa importante quella che abbiamo fatto, ma io ci tengo sempre a dire che non siamo eroine, assolutamente, perché è stata una cosa viscerale: avevamo bisogno di sapere dov’erano i nostri figli. Poi, certo, siamo diventate un buon esempio di resistenza, anche abbastanza in gamba in quanto a cercare delle buone strategie», ammette Vera. La lotta delle madri continua ancora oggi. Tutti i giovedì, alle tre del pomeriggio, si ritrovano in piazza per fare la loro ronda.
Il legame con l’Italia
Dopo 45 anni dal colpo di stato, «siamo rimaste in poche, tutte vecchiette, 90enni, ma ancora ognuna ha un ruolo. Io, che ho 92 anni, mi occupo di educazione nelle scuole. Un modo per dare seguito ai sogni di Franca, che aveva avrebbe voluto studiare Scienze dell’educazione dopo il liceo», spiega Vera. Il suo legame con l’Italia non si è mai interrotto. Nonostante la sua età e gli acciacchi, infatti, prende spesso l’aereo per venire a Roma, dove tiene incontri con gli studenti e non solo. La sua “militanza” si ispira a Gramsci e alla campagna contro l’odio portata avanti da Liliana Segre. Il suo impegno con la memoria, «parla di passato, sì, ma è fortemente legato al presente e al futuro, affinché si possa migliorare. Non c’è garanzia, ma, come diceva Gramsci, si può con la volontà», dice.
«Ho una particolare facilità di comunicazione con i ragazzi, non so perché, ma ci troviamo bene insieme e quindi riesco a raccontare, a trasmettere e soprattutto a far riflettere. Su cosa? Su cosa accade nel mondo, soprattutto sulle cose che ho vissuto in prima persona. E partendo dalla mia storia, cerchiamo di capire insieme se ci sono i sintomi, nella società, che possono trasformarsi in tragedie, perché è a quel punto che bisogna muoversi», spiega Vera.
I pilastri dei suoi discorsi sono verità, giustizia e memoria. «A questi, ne ho aggiunto un altro, che è “mai più l’odio”, ispirandomi alla campagna portata avanti da Liliana Segre. Il tema dell’odio credo sia centrale quando si vuole porre le basi per perseguitare qualcuno: crea stereotipi e la gente inizia a odiare, e allora se c’è l’odio è più facile attaccare, perseguitare e continuare a ripetere gli errori della storia», spiega ancora Vera. Lei, ha avuto anche la fortuna di incontrare Primo Levi, negli anni di Mussolini, in Italia. «L’ho visto una sola volta a Torino, a casa di alcuni amici e mi disse una cosa fondamentale: quello che è accaduto una volta, può tornare a ripetersi. Ed è vero: le tragedie si stanno ripetendo».
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