Nel discorso alla nazione dopo il viaggio lampo a Tel Aviv, Biden rilancia la leadership americana nel mondo, scosso da conflitti, quello tra Russa e Ucraina e quello tra Hamas e Israele, che mettono alla prova quella rinnovata aspirazione.
Il presidente americano legge entrambi come la lotta per l’esistenza di due democrazie aggredite, rispettivamente, dal fondamentalismo di Hamas e dal nazionalismo granderusso di Mosca. Lettura che, secondo i canoni del neowilsonismo erede della cultura interventista dei democratici americani, impone agli Usa di schierarsi a fianco delle democrazie minacciate. Cosa che hanno fatto coprendo, non solo ideologicamente, il loro principale alleato mediorientale.
Oltre a recarsi in Israele, Biden ha schierato la flotta nel Mediterraneo orientale, facendo capire all’Iran che un suo eventuale intervento non potrebbe che condurre a una risposta militare Usa; ha equiparato il 7 ottobre all’11 settembre legittimando la dura reazione di Israele e concedendogli 14 milioni di dollari di aiuti.
Eppure l’America ha un timore, comunicato nell’esortazione a non ripetere i suoi stessi errori dopo l’11 settembre.
Da qui l’urgenza, e l’eccezionalità, del viaggio, compiuto – mentre il segretario di Stato Blinken faceva già la spola tra le capitali della regione cercando di tessere una tela disfatta, non solo nottetempo, dalle dinamiche sul campo – anche per recapitare un messaggio dal palese sottotesto. Riassumibile in interrogativi quali: cosa intendete fare a Gaza?
Come sarà il paesaggio dopo la battaglia, ingombro di macerie politiche oltre che di quelle, terribilmente concrete, provocate dalle potenti armi di Tsahal? Quali i vostri obiettivi per i giorni che seguiranno l’annunciata distruzione militare di Hamas? Domande, e soprattutto risposte, necessarie per consentire agli Usa di prendere decisioni destinate, nelle stesse parole del presidente , a segnare «i prossimi decenni».
Estensione del conflitto
Non è secondario che, dopo aver assicurato il pieno sostegno americano a Israele, Biden abbia messo in guardia Netanyahu dal non oltrepassare un meridiano zero che potrebbe trasformare un pur duro conflitto locale in estesa guerra regionale e, forse , in qualcosa di più grave.
Gli Stati Uniti sono preoccupati che il conflitto sfugga di mano; che la reazione all’attacco di Hamas vada oltre il ripristino della deterrenza; che il coinvolgimento della popolazione di civile di Gaza assuma le sembianze di una punizione collettiva capace di suscitare sia una vasta mobilitazione a favore dei palestinesi sia la paralisi di regimi arabi alleati che difficilmente potrebbero separare la loro sorte dai primi.
Situazione complicata dal fatto che a condurre la guerra è lo stesso Netanyahu. Il timore, non troppo velato, di Biden è che Bibi, comunque destinato a uscire di scena alla fine del conflitto, intenda andarsene nelle vesti del “vendicatore”, del leader che ha distrutto chi voleva distruggere Israele, deciso a ottenere un riconoscimento, se non nell’“ingrato” presente, almeno nella Storia.
Aspetto psicologico che, unito a un clima nel paese non certo incline a umanitarismi verso gli “arabi”, può spingerlo a mosse dalle conseguenze incalcolabili, tali da trasformare una vittoria militare in sconfitta politica. Distruggere Hamas senza sapere bene che fare di Gaza appare impensabile agli americani, che hanno compito un simile errore in Iraq.
Il turbinio di fantasiose ipotesi sulla possibile gestione della Striscia dopo la guerra, qualora fosse definitivamente scartata l’opzione di occuparla per qualche tempo, destano sconcerto in riva al Potomac. A Foggy Bottom e al Pentagono le “perplessità” sono palpabili.
Oggi come oggi nessun paese arabo potrebbe esporsi in simili tentativi per conto terzi, tanto più in vece di Israele dopo un cataclisma bellico come quello che si preannuncia. Così come appare improbabile, in simili circostanze, un trapianto a Gaza della delegittimata leadership dell’Anp che, a sua volta, teme il probabile esodo dei quadri sopravvissuti di Hamas in Cisgiordania.
Instabilità regionale
L’impossibilità di Biden di incontrare, nel corso della sua missione, il sovrano giordano, il presidente egiziano, se non l’assai pragmatico leader saudita, preoccupati dell’impatto che i colloqui avrebbero prodotto nei loro paesi, alcuni dei quali già teatro della mobilitazione di piazza, è spia di un rischio. Un “ottobre nero” palestinese che può diventare un pericolo per la stabilità di alcuni paesi, soprattutto per quelli firmatari degli accordi di Abramo.
In un clima così polarizzato, anche i governi arabi che sin qui consideravano una gravosa, e ormai intollerabile, eredità del passato la questione palestinese, devono muoversi con cautela.
Più che altrove il Medio Oriente è luogo di emozioni che possono deflagrare in presenza di un evento catalizzatore come questa guerra.
Consapevole del possibile contagio la Casa Bianca ha consigliato/esortato Netanyahu a non oltrepassare la linea: non solo a Gaza ma anche sul fronte nord. Evitando di perseguire l’idea di eliminare la “minaccia ai confini” attraverso lo scontro aperto con Hezbollah e i suoi protettori iraniani. Del resto, né il Partito di Dio, alle prese con un paese alle corde per la crisi economica, né l’Iran scosso dal dissenso interno, vorrebbero essere trascinati in guerra.
La solidarietà in funzione antisraeliana con Hamas non giunge sino al punto di mettere in gioco né il ruolo centrale che il movimento guidato dallo sceicco Nasrallah svolge nel Paese dei Cedri né, tanto meno, il regime di turbanti e elmetti a Teheran.
E, non solo, perché Hamas è un movimento islamista sunnita e non sciita. Molto dipenderà dalle mosse sul terreno: anche da quelle israeliane. Se Netanyahu decidesse di “ripulire” il confine nord in una sorta di riedizione dell’Operazione Litani, che nel 1978 portò alla nascita di una fascia di sicurezza destinata, allora, a tenere a distanza le forze palestinesi nel sud del Libano, allora l’estensione della guerra potrebbe essere inevitabile.
Hezbollah, che dispone di un arsenale militare assai più sofisticato e efficace di quello di Hamas, reagirebbe, innescando una controreazione di Tsahal capace di provocare l’intervento iraniano. In un escalation non difficile da immaginare.
Concentrata sul fronte del Pacifico – lo stop alla Russia nella vicenda ucraina è, anche, un messaggio per la Cina di Xi – l’America non vuole essere bloccata in Medi Oriente. Biden lo ha fatto presente a Netanyahu e non certo nei toni della “moral suasion”.
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