L’associazione WeWorld racconta di una popolazione stanca e della speranza nel futuro di chi, come Nataliia Kavetska, decide di tornare in Ucraina e di costruirsi la propria quotidianità.
«Sembra quasi che in me convivano due mondi diversi: c’è la guerra e c’è la vita normale». Così Nataliia Kavetska descrive la sua nuova vita in Ucraina dopo l’inizio del conflitto.
Nataliia è una ragazza di 34 anni, che soli otto mesi dopo essere scappata da Leopoli con suo figlio per paura della guerra, ha deciso di tornare. Intervistata da WeWorld, associazione non profit impegnata nella difesa dei più deboli e attiva nelle zone di Kiev, Kherson, Mykolayiv e Kharkiv per fornire assistenza umanitaria, racconta di aver lasciato la sua città a un mese dall’invasione e di essere partita per l’Italia, dove ha trovato sostegno e accoglienza. In poco tempo ha però deciso di tornare indietro. «Ho capito che volevo fare qualcosa per il mio paese», dice. Nonostante il biasimo di molti, nel dicembre 2022 si trasferisce a Kiev e comincia una vecchia-nuova vita. «La vita quotidiana è molto diversa da prima perché ci sono i bombardamenti. Se scatta l’allarme dobbiamo correre in cantina, capita che i bambini studino in cantina. Nell’aria si sente il pericolo, quando vado al lavoro mi capita di vedere le macerie dei palazzi».
La storia di Nataliia, a due anni dall’inizio della guerra, mostra una realtà ancora difficile da affrontare, in cui, nonostante tutto, emerge la volontà di ricostruire una vita normale. Cosa che raramente la guerra concede. Chi è rimasto in Ucraina cerca allora, proprio come Nataliia, di dividersi tra i «due mondi», nella speranza di ritrovare una quotidianità quanto più regolare possibile, anche se scandita dalle sirene degli allarmi antiaerei.
La guerra modifica il modo di vivere ogni giornata, il modo di affrontare tutte le attività, tutti i gesti che giornalmente compiamo senza pensarci troppo. E in questo nuovo ritmo, più che una normalità, si viene a creare quella che Guido Manneschi, rappresentante Paese in Ucraina per WeWorld, definisce «regolarità», che permette alle persone di non cadere sotto la pressione del conflitto e andare avanti. «Ormai siamo abbastanza abituati, purtroppo. È una cosa terribile da accettare perché non è una cosa normale», dice Nataliia. «Io provo ad organizzare una vita normale: a volte andiamo a teatro, a volte una festa, ogni settimana io e mio figlio guardiamo un film in italiano per non dimenticare la lingua e ogni weekend organizzo un incontro con le donne ucraine che adesso abitano in Italia, così che possano parlare l’italiano. Sembra quasi che in me convivano due mondi diversi: c’è la guerra e c’è la vita normale».
Quello che sembrerebbe essere cambiato nel corso di questi due anni è proprio quella voglia di «trovare delle soluzioni» (Manneschi), di tornare ad avere la propria quotidianità, seppur adattata, e di non vivere solo il mondo della guerra. Il desiderio di riprendere le proprie abitudini e la speranza di poter ricostruire un futuro in Ucraina, oggi sembrano accendersi più forti tra la popolazione, che, seppure stanca, resiste, e alimenta un sentimento di rivalsa, che spesso, come è successo a Nataliia, spinge chi era fuggito a tornare.
Sentimenti diversi in regioni diverse
Trovare la propria normalità «adattata» non è però possibile per tutti. Per quanto ci si provi, infatti, il conflitto impone conseguenze diverse a seconda della zona in cui ci si trova.
Guido Manneschi spiega che a ovest del paese, o anche nella stessa Kiev, il conflitto può considerarsi più regolarizzato, con bombardamenti sporadici e una difesa aerea piuttosto efficiente. La vita in queste aree è quindi «quasi regolare», anche se è sempre presente il coprifuoco a mezzanotte e il problema del continuo reclutamento al fronte spezza la quotidianità delle famiglie, costrette a separarsi.
In altre regioni, come ad esempio a Kharkiv, la situazione cambia: i bombardamenti giornalieri impongono una tensione molto più alta sulla popolazione. Diverse attività economiche ancora non riescono a riaprire e le persone, rimaste senza lavoro, sono costrette a lasciare le città. In questi ambienti spinge ancora il desiderio di tornare alla propria vita abituale, ma rimane più difficile riuscirci.
Ancora diversa è la situazione nei villaggi più vicini al fronte, dove per vivere si conta molto sugli aiuti umanitari. I bombardamenti sono quotidiani e solamente una piccola parte di persone vive ancora nelle proprie case. Qui, «è ancora una realtà prettamente di guerra, in cui non si sa se da un giorno all’altro il fronte potrebbe spostarsi e liberare o invadere un certo territorio», chiarisce Manneschi.
L’impatto psicologico della guerra
La guerra è riuscita a mutare tutto in Ucraina, dal paesaggio delle città alle abitudini di vita di chi ancora le abita. Gli edifici distrutti, inclusi scuole e ospedali, mostrano, almeno sul piano materiale, il potere devastante della guerra, che sembra non guardare in faccia nessuno. Rimane però altrettanto evidente l’impatto psicologico che il conflitto ha, e continuerà ad avere, sulla popolazione.
Guido Manneschi sostiene che questi due anni di guerra avranno «ripercussioni sul futuro di un’intera generazione, con bambine e bambini che vivono una quotidianità precaria senza continuità a scuola, con la paura dei bombardamenti, uomini che avranno bisogno di aiuto per superare lo stress post traumatico, donne che hanno il peso della cura e della ricostruzione sulle proprie spalle». Si parla di una vera e propria «crisi collettiva», che, se non viene fermata al più presto, rischia di minare le capacità dell’Ucraina di rialzarsi una volta finito il conflitto. Per portare avanti la ricostruzione del paese, oltre all’assistenza finanziaria diretta al recupero delle imprese e delle infrastrutture cittadine, è fondamentale impegnarsi nel settore del sostegno psicosociale di adulti e bambini.
Lo sfollamento delle persone, la fuga dal paese, il continuo reclutamento al fronte, hanno compromesso le relazioni sociali e familiari di chi è rimasto in Ucraina, elemento fondamentale per la costruzione di una comunità. È importante comprendere che una nazione può esistere solo se al suo interno è presente un popolo, una comunità forte e coesa, legata al territorio, che vive e lavora in funzione di esso. La ricostruzione di questo senso di condivisione e appartenenza, che spinga sempre più persone a tornare in Ucraina, è ciò su cui si deve lavorare per far sì che il paese possa riprendersi dalla guerra.
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