- Si è riunito il comitato centrale del Partito comunista. Xi studia le mosse per succedere a sé stesso.
- Potrebbe rispolverare la super-carica di “presidente” che era appartenuta a Mao e poi dimenticata. Sarà varata la terza risoluzione sulla storia del Pcc.
- Al suo interno ci sarà tutto lo Xi-pensiero, dal “sogno cinese” al “benessere condiviso”, “alla vittoria nella guerra popolare contro il coronavirus”, fino alla visione di un “grande paese socialista moderno” nel 2049, quando ricorrerà il centenario della fondazione della Repubblica popolare cinese.
Delle sette sessioni plenarie (plenum) del suo comitato centrale che scandiscono la vita del partito comunista cinese da un congresso nazionale a quello successivo, la sesta è quella tradizionalmente dedicata alle questioni ideologiche e al rafforzamento del partito. Con Xi Jinping al comando, la liturgia del VI plenum che, aperto ieri a Pechino, si celebrerà fino a giovedì prossimo nel blindatissimo hotel Jingxi, assume un significato particolare, perché alla dottrina e all’organizzazione del partito-leviatano di cui è a capo dal novembre 2012 il segretario generale ha dedicato gran parte della sua azione, convinto che il partito leninista figlio dalla Terza internazionale (1919-1943), che già Mao iniziò ad adattare alla realtà cinese, si sarebbe rivelato un efficace strumento di governance nel XXI secolo.
C’è dunque grande attesa per la “risoluzione sulla storia del partito” che sarà il clou di questo VI plenum. Per conoscerne qualche anticipazione bisognerà attendere il comunicato che, come da rituale, allo scioglimento del consesso, sarà diramato dall’agenzia Xinhua. A cento anni dalla sua fondazione, di queste riscritture dell’epopea del Pcc esistono solo due precedenti – quella voluta da Mao nel 1945 per sconfiggere gli avversari interni più radicali e filosovietici e quella che, nel 1981, conferì legittimità alle riforme di Deng. Anche la terza, c’è da esser sicuri, segnerà il futuro politico della Cina, assecondando i piani di Xi.
La stanza dei bottoni
In teoria il comitato centrale (con i suoi 204 membri effettivi e 172 sostituti) è l’organo supremo del Pcc: in base alle “quattro obbedienze” (sìgè fúcóng) con le quali il grande timoniere interpretò il principio del “centralismo democratico” che regola il funzionamento del partito, «tutti gli iscritti sono sottoposti al comitato centrale». In realtà la stanza dei bottoni è altrove, nell’ufficio politico (25 membri) e, soprattutto, nel suo comitato permanente (7), all’interno del quale il segretario generale dovrebbe essere un primus inter pares, che però con Xi è stato elevato molto più in alto, a “cuore”, “nucleo” della leadership (héxīn lĭngdăo).
Ai segretari provinciali, ai governatori, ai capi dei dipartimenti e delle organizzazioni di partito e delle aziende di stato, e ai generali dell’esercito popolare di liberazione riuniti nel plenum, la leadership ristretta sottopone deliberazioni che, nell’ultimo secolo, hanno suscitato dibattiti più o meno accesi e sono state più o meno emendate.
Mao dovette fronteggiare spesso attacchi diretti da parte di esponenti di punta del partito (tanto che alla fine gli scatenò contro la rivoluzione culturale). L’VIII plenum dell’VIII comitato centrale (agosto 1959) fu segnato dalla drammatica rottura tra il grande timoniere e il maresciallo Peng Dehuai, l’eroe della guerra di Corea che ne contestò apertamente la politica economica e militare.
Da quello scontro il ministro della difesa uscì distrutto: bollato come esponente di una “cricca anti partito”, fu spogliato della divisa e venne espulso da Zhongnanhai – la residenza accanto alla Città proibita dove vivono i leader del Pcc –; morirà nel 1974, dopo essere stato perseguitato e torturato dalle guardie rosse. Stavolta non dovremmo assistere ad alcuna purga eccellente, perché Xi ha già ridotto al silenzio in maniera relativamente incruenta i suoi principali avversari, grazie a una campagna anticorruzione lanciata nel 2013 dalla commissione centrale di vigilanza (Ccdi) del Pcc e diventata permanente.
Divisi ma compatti
Seppur alle prese con i 300 miliardi di debiti del colosso immobiliare Evergrande, con i razionamenti energetici, con il rallentamento del Pil e con i nuovi focolai di variante Delta), la Cina continua a crescere a tassi invidiabili (per l’anno in corso potrebbe sfiorare l’8 per cento).
Da Hong Kong l’accademico e osservatore delle vicende del Pcc Willy Wo-lap Lam nei giorni scorsi ha rilanciato le voci su una rottura tra Xi, da una parte e, dall’altra, il vice presidente Wang Qishan e l’ex vice presidente Zeng Qinghong.
Un pezzo della leadership mal digerisce sia il comando sine die di Xi Jinping, sia il suo “benessere comune”, che sta imponendo l’obbedienza al partito di grandi compagnie private hi-tech (negli ultimi giorni si è dimesso anche Zhang Yiming, fondatore e amministratore delegato di BiteDance) e di interi settori che finora avevano potuto prosperare liberamente, ma ciò non sembra in grado di tradursi in una fronda interna, in un momento in cui l’economia continua a tirare e mentre gli Stati uniti di Biden, con la loro “alleanza delle democrazie” stanno opponendo alla Repubblica popolare cinese un containment d’antan, alimentando il nazionalismo e il risentimento popolare nei confronti degli occidentali.
Grazie alla sua capacità di cooptazione, oggi il Pcc può contare su 95 milioni di iscritti. L’immagine ostentata da questo plenum che precede di un anno il XX Congresso nazionale che dovrebbe attribuire a Xi un inedito terzo mandato a guidare la Cina sarà dunque di granitica unità e di altrettanto irremovibile fiducia nei valori di una Cina che – complice una competizione accelerata dalla pandemia – si sta allontanando sempre più dall’occidente che negli ultimi decenni aveva in parte avvicinato grazie alle sirene dei suoi mercati, per ripiegare sulla “sua” Asia.
Decoupling ideologico
Prima di un eventuale decoupling economico (che la maggior parte degli economisti giudica impossibile, ma che in alcuni settori tecnologici procede a tappe forzate) si è già affermato quello ideologico, con il rifiuto e il contrasto ai valori della democrazia liberale nei media, nella società e nella politica.
Oggi Xi rivendica orgogliosamente la «superiorità della democrazia cinese», che «serve a risolvere i problemi reali della gente», come ha spiegato durante un recente incontro del partito dedicato al sistema politico cinese. Nel pot-pourri ideologico continuamente rimestato dall’apparato della propaganda si mescolano marxismo sinizzato, nazionalismo e confucianesimo. Per quest’ultimo “democrazia” equivale al mínbĕn, ovvero l’azione di governo mirata al benessere del popolo, dove l’enfasi è tutta sulla performance, indipendentemente da come i regnanti abbiano ottenuto il potere; dove il governo va affidato a una minoranza di persone particolarmente qualificate, in ragione della loro conoscenza e virtù superiore; che presuppone che il popolo sia molto meno capace dei suoi leader di prendere decisioni. La campagna di elaborazione e diffusione dell’ideologia all’interno del Pcc promossa da Xi - con l’inserimento nello statuto del partito del suo “pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una Nuova era” - ha già posto il segretario sullo stesso piano teoretico-politico di Mao Zedong e Deng Xiaoping. Il pensiero di Xi Jinping è entrato nei libri di testo delle scuole e delle università cinesi di ogni ordine e grado. Tra il 2014 e il 2020, il Fondo nazionale per le scienze sociali ha finanziato 370 progetti di ricerca sulle politiche e sul pensiero del segretario generale.
La terza risoluzione sulla storia del partito che verrà discussa e approvata dal prossimo plenum avrà anche la funzione di rafforzare ulteriormente la figura di Xi, ormai equiparata a quella di Mao e Deng, in vista del XX Congresso. Al suo interno ci sarà tutto lo Xi-pensiero, dal “sogno cinese” al “benessere condiviso”, “alla vittoria nella guerra popolare contro il coronavirus”, fino alla visione di un “grande paese socialista moderno” nel 2049, quando ricorrerà il centenario della fondazione della Repubblica popolare cinese.
Tutto questo lavorìo ideologico potrebbe indurre il XX Congresso a rispolverare per Xi la carica di presidente del partito, istituita per Mao al VII Congresso nazionale (nel 1945) e mandata in soffitta nel 1982 con l’XI Congresso, dopo che il riformista Hu Yaobang era stato l’ultimo a ricoprirla. Un incarico relativamente al quale nello statuto non sono chiariti i poteri né è previsto alcun termine, e che Mao utilizzò per avere l’ultima parola su tutte le decisioni più importanti del partito, per guidarlo “dall’alto”. Diventare presidente del partito permetterebbe a Xi di continuare a comandare, e di “allevare” un più che fedele segretario generale, posizione che a tal fine potrebbe essere lasciata vacante per qualche tempo.
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