La costruzione europea è qualcosa di ben più fragile di come l’avevamo immaginata prima di questo millennio. Vent’anni fa l’entusiasmo per la fine dei regimi autoritari nell’Europa centro-orientale ci ha fatto buttare il cuore oltre l’ostacolo aprendo l’Unione europea a quei paesi.

Certo, c’era anche il timore che in quelle nazioni scoppiassero conflitti interetnici come quelli appena sedati in Jugoslavia, con effetti devastanti sulla sicurezza nel continente.

Anzi, la narrazione dei leader europei di quel periodo, da Tony Blair a Gerhard Schroeder, in merito all’allargamento batteva proprio su questo tasto, per convincere opinioni pubbliche perplesse.

La scelta dell’allargamento ha impedito l’approfondimento cioè una integrazione più stretta tra i membri dell’Ue. L’Europa a 15 aveva standard politico-culturali sufficientemente simili per procedere; semmai, si trattava di sorreggere ulteriormente le economie marginali.

L’ingresso dei paesi dell’Europa centro-orientale ha reso molto più disomogeneo lo spazio comunitario. I generosissimi programmi Phare, varati proprio per aiutare quelle nazioni nella transizione, hanno colmato alcune criticità ma la diffusione di una cultura politica democratica non avviene per decreto: necessita di molto più tempo.

Solo gli ingenui si possono stupire di quanto sia successo in Polonia e in Ungheria, in attesa che altri purtroppo seguano. Se non si insiste sul fatto che l’Ue è una costruzione fondata sulla rule of law e sui princìpi fondanti dell’Illuminismo, come dice il Trattato dell’Unione, allora perde il suo status morale di esempio per il resto del mondo.

In fondo, le increspature delle relazioni con l’America di Donald Trump sono venute proprio su questo terreno e giustamente, per una volta, Angela Merkel sostenne che, in quel momento, toccava a noi europei tenere alta la bandiera della democrazia nel mondo.

Tra Parigi e Kiev

Il problema della natura democratica dell’Ue si pone in maniera lacerante in questi giorni. Da un lato c’è il rischio che la Francia, nazione leader dell’Europa, cada nelle mani dell’estrema destra, una catastrofe di proporzioni nemmeno immaginabili.

Dall’altro ci sono le promesse generose, ma difficilmente realizzabili nel breve periodo, per quanto riguarda l’adesione dell’Ucrania all’Ue, come ha ribadito anche l’altro giorno Ursula von der Leyen nella sua visita a Kiev.

Il sostegno che tutti gli europei, Ungheria esclusa, assicurano a questa nazione non deve farci perdere di vista alcuni punti fermi per quanto riguarda l’ingresso dei candidati.

L’empatia per gli ucraini aggrediti e l’aiuto concreto alla loro lotta non può far dimenticare lo stato ancora precario, e forse persino aggravato dal conflitto, della loro democrazia.

L’anno scorso la Freedom House, noto think tank che valuta (pur con molti problemi) il grado di democraticità delle varie nazioni, collocava l’Ucraina tra i paesi “parzialmente liberi” al 61° posto, e Transparency International, che valuta il livello di corruzione, gli assegnava un valore di 32 su 100 che la poneva al 122° posto, tra Zambia e Niger.

Inoltre, il country report del Fmi di fine 2021 sollevava forti critiche sull’indipendenza della banca centrale e del sistema giudiziario, sulla corruzione e sul peso dei “vested interests” (leggasi oligarchi) .  

Prima dell’invasione – e chissà quale ruolo potranno avere i miliari dopo la guerra – l’Ucraina necessitava di un periodo di transizione per accedere a standard minimi di accettabilità.

Affrettare i passi e fare promesse che la presidente della Commissione non è in grado di mantenere, perché le proposte di allargamento devono essere votate da tutti i membri con voto parlamentare o referendum, può creare eccessive aspettative.

Un conto è il sostegno simbolico della promessa di un trattamento benevolo e il più possibile rapido, un altro far saltare tutte le regole con il rischio di diluire lo standard politico-istituzionale della Ue. Senza tenere conto, infine, quanto l’Unione sposterebbe a est il suo baricentro con l’ingresso di più di 40 milioni di persone in un territorio grande quasi il doppio della Germania: un passaggio geopolitico di importanza storica.

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