Immaginate di dividere mille euro fra due persone. Di loro non sapete nulla, nome, genere, condizioni economiche, etnia. Dovete solo stabilire la frazione che ognuna riceverà (metà e metà, un terzo e due terzi, ecc.). Che porzioni scegliereste? Mi azzardo a prevedere che una buona parte di voi opterebbe per parti uguali: 500 euro a testa.

Ora immaginate, invece, di scegliere tra due mini “società”, ognuna con due individui. La prima ha un “reddito” totale di 2.000 euro. A una delle due persone ne vanno 1.800, all’altra 200. Nella seconda, il reddito è 1.600 euro, una delle due parti ne avrà 900, l’altra 700.

Come prima, non sapete nulla delle due persone, e, una volta scelta una delle due società, non saprete a chi andranno le porzioni predefinite. Di nuovo, è ragionevole aspettarsi che almeno alcuni preferiranno la seconda società: meno “produttiva”, ma meno diseguale.

La teoria

Ci sono diverse ragioni per scegliere soluzioni più paritarie, nei due semplici esempi ma anche nel più complesso mondo reale. Alcuni semplicemente sono avversi alle disuguaglianze. Altri, non sapendo nulla delle due persone, riterrebbero che assegnare a una di esse una quota inferiore sia discriminante. Nel secondo contesto, poi, con un’allocazione meno diseguale (700 e 900) si limita la potenziale ingiustizia di dare “troppo di più” a chi magari merita meno.

Questa distribuzione evita poi il rischio che una parte finisca per ricevere una somma troppo piccola e “sproporzionata” rispetto all’altra; nel mondo reale, per esempio, potrebbero sopraggiungere cambiamenti radicali che non consentano di stabilire chiaramente una gerarchia di meriti e bisogni, e una delle parti finirebbe per trovarsi in condizioni troppo disagiate. Inoltre, può essere all’opera un meccanismo di identificazione: se invece di essere il decisore voi foste una delle parti riceventi, quale distribuzione o tipo di società vorreste che il decisore attuasse?

Propendere per soluzioni meno sperequate si conforma al pensiero di John Rawls, uno dei più importanti filosofi politici del XX secolo. Una volta garantiti diritti e beni fondamentali, secondo lo studioso americano, la giustizia sociale richiede innanzitutto di garantire le migliori condizioni materiali possibili ai gruppi più svantaggiati. Le disuguaglianze sono ammissibili, ovviamente, ma sono giustificabili solo se ne beneficiano gli ultimi.

Free and Equal

Nonostante la sua rilevanza intellettuale, la filosofia di Rawls non ha mai ottenuto l’interesse che avrebbe meritato nel dibattito politico. Nel suo recente libro Free and Equal, il filosofo ed economista della London School of Economics Daniel Chandler propone un recupero di questo pensiero, specialmente da parte delle forze progressiste e di sinistra. Tre sono i principali argomenti di questo saggio.

Primo, questa teoria della giustizia sociale offre basi valoriali ben definite, logicamente coerenti, e indipendenti da elaborazioni filosofiche più complesse. Prioritizzare l’uguaglianza e l’attenzione ai più vulnerabili è un valore in sé, e non una derivazione da paradigmi come il materialismo storico marxiano, per esempio, o come la teoria economica neoclassica, secondo cui le scelte politiche ottimali sono quelle con un migliore rapporto fra costi e benefici economici, e una soluzione egalitaria è preferibile se soddisfa questo criterio.

Secondo, il pensiero di Rawls è pienamente all’interno della tradizione liberaldemocratica, pur andando oltre la promozione soltanto formale dei diritti e delle libertà fondamentali.

Terzo, e questo forse è il contributo più importante del lavoro di Chandler, in punta di logica e sulla base di una sempre più convincente evidenza scientifica dal lavoro di Rawls derivano proposte politiche concrete. La ricerca, per esempio, suggerisce che la presenza di un sistema educativo privato crea un dualismo fra chi può permettersi scuole esclusive, da una parte, e chi invece non ha altra scelta che il sistema pubblico, dall’altra, così ampliando le differenze di opportunità e risultati.

Se il principio guida è dare priorità al miglioramento delle condizioni degli ultimi, allora sarebbe preferibile l’abolizione delle scuole private, o quantomeno evitare di finanziarle. Lo stesso vale nel caso della sanità. Se il cambiamento tecnologico genera atomizzazione e perdita di potere e dignità dei lavoratori, la promozione dei sindacati e di forme di codeterminazione delle scelte aziendali fra capitale e lavoro potrebbe riequilibrare i rapporti fra le parti. Una maggiore e più effettiva progressività fiscale verso redditi, capitali ed eredità redistribuirebbe risorse dai più privilegiati ai più deboli, e un reddito di base universale livellerebbe i punti di partenza. Un sistema decisionale pubblico che si fondi sulla rappresentanza ma ne riconosca i limiti (come le crescenti influenze di grandi poteri economici sulle scelte politiche), promuovendo un maggiore ricorso ad assemblee diffuse e referendum, darebbe voce a chi spesso non ne ha.

Infine, poiché l’emergenza ambientale e climatica ha un impatto più severo sulle categorie più fragili, gli investimenti “verdi” sono anch’essi promotori del principio di giustizia rawlsiano.

Le reazioni possibili

A fronte di questa elaborazione morale e politica, tre sono le possibili reazioni, che trovano dimora nelle grandi tradizioni politiche del nostro tempo.

Le forze progressiste, socialdemocratiche ed ecologiste accolgono apertamente sia i principi alla base del pensiero di Rawls, sia le proposte politiche che Chandler ne deriva. E nel seguire questo approccio, si collocano in una solida tradizione liberale.

All’opposto sono coloro che semplicemente non vedono in quei principi una guida per l’organizzazione della società. Per la destra, al potere in molti paesi e in crescita altrove, la protezione degli ultimi e l’effettiva uguaglianza di opportunità non sono priorità. Essa propone piuttosto una società gerarchica e corporativa, con cittadini di diversa dignità in base a nazionalità, colore della pelle, orientamenti affettivi o credenze religiose; una società chiusa, in cui l’ordine (sociale, economico) è imposto dall’alto, anche con la coercizione.

Non c’è quindi nessuna ragione per dividere una torta in parti uguali, o preferire una torta più piccola purché divisa in parti meno diseguali di una più grande.

Nella pratica politica questo porta a preferire, per esempio, un sistema tributario che favorisca i più abbienti, la delega di importanti servizi pubblici al settore privato, il nativismo e la difesa di valori e abitudini del passato, e un approccio ostile e punitivo verso diversità e “devianze”. Nessuna di queste proposte è in contrasto con un sistema democratico: a essere diversi sono i valori morali sottostanti.

In mezzo restano i “moderati”. Spesso provenienti dalla stessa tradizione liberale di John Rawls ma riluttanti a compiere il passo successivo, e cioè appoggiare politiche che attuino compiutamente quel pensiero. Perché ancorati a teorie che l’evidenza recente ha dimostrato avere un supporto empirico limitato, come l’idea che una maggiore progressività fiscale su redditi e capitali riduca le motivazioni imprenditoriali, che meno stato sia sempre meglio, e che la crescita economica sia sempre prioritaria rispetto alla (re)distribuzione.

Perché nutrono poca fiducia nella partecipazione attiva dei lavoratori e del pubblico alle scelte aziendali e politiche. Perché vedono nella protezione dei loro interessi di classi medio-alte non solo un beneficio diretto, ma anche il canale per trasmettere benessere anche agli altri (di nuovo, smentiti dall’evidenza).

Come in altre epoche storiche, nel nostro tempo la crescente diseguaglianza, la concentrazione del potere economico, le guerre anche alle porte del ricco “occidente”, e le spinte illiberali e antidemocratiche (da destra) che investono sempre più paesi lasciano poco spazio ai tentennamenti. Si può concludere che il timore per l’eccessiva diffusione del potere e della ricchezza sia sufficiente a lasciare campo libero alle destre. Oppure che valga la pena buttarsi, superare certe remore, accogliere il nuovo, e promuovere un’uguaglianza più sostanziale che crei maggior benessere e più diffusa libertà.

Changer les choses de place, c’est le travail des hommes: il faut choisir de faire cela ou rien, scriveva Albert Camus. Forse è il momento di avere coraggio e passione per muovere un po’ di cose. La scelta di non far nulla appare quanto mai pericolosa.

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