- In città si era già votato due volte per scegliere il candidato sindaco della coalizione di centrosinistra: nel 2013, quando ha vinto Ignazio Marino, e nel 2016, quando ha vinto Roberto Giachetti.
- In entrambi i casi sono stati eventi che hanno aperto un cammino che il Pd preferirebbe non ripercorrere in vista delle prossime elezioni.
- Nodi irrisolti e ferite aperte incombono anche sul voto di domenica, quando ci si attende una vittoria netta del candidato di partito Roberto Gualtieri. Resta da vedere se questo basterà a guarire la politica cittadina.
Domenica i romani voteranno per le primarie del centrosinistra con cui sceglieranno il candidato sindaco in vista delle elezioni dell’ultimo autunno.
In teoria, l’esito è già scritto: l’ex ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, sostenuto in maniera compatta dal Partito Democratico, dovrebbe vincere senza grandi difficoltà.
Ma nonostante i buoni auspici, il clima nel Pd romano non è dei più sereni. Il voto di domenica arriva all’ombra delle due precedenti primarie che si sono svolte in città: quelle del 2013, vinte da Ignazio Marino, e quelle del 2016, vinte da Roberto Giachetti.
Due competizioni che, in modi diversi, si rivelarono un anatema per il Pd e una strada che il partito certamente oggi non vuole ripercorrere.
Orfani di Zingaretti
Il voto di domenica ha più di un tratto comune con la prima volta in cui il centrosinistra ha scelto tramite elezioni primarie il suo candidato sindaco di Roma, nella primavera del 2013.
Allora, come è stato fino a pochi mesi fa, il candidato favorito era Nicola Zingaretti, all’epoca popolare presidente della provincia di Roma. Zingaretti si era candidato alle primarie per la corsa a sindaco di Roma con un anno di anticipo, già nell’estate del 2012.
Ma l’improvvisa caduta della giunta regionale di centrodestra del Lazio, guidata da Renata Polverini, gli fa cambiare programma. A ottobre del 2012 annuncia la sua candidatura alle regionali e a febbraio, tre mesi prima del voto a Roma, riconquista la regione di cui è ancora alla guida.
Senza quello che che molti consideravano il candidato “naturale”, il partito si divide. Il favorito diventa l’europarlamentare ed ex giornalista Rai David Sassoli, sostenuto dalla potente corrente di Dario Franceschini.
Contro di lui, si candida Paolo Gentiloni, all’epoca ex ministro delle Comunicazioni del governo Prodi e sostenuto da Matteo Renzi, in quei mesi astro nascente del Pd. Il suo portavoce è Antonio Funiciello, che poi lo seguirà come capo dello staff quando Gentiloni diventa presidente del Consiglio e che attualmente è capo di gabinetto di Mario Draghi.
La sfida sembra scontata, ma all’ultimo momento, l’arrivo di un nuovo candidato spariglia ancora una volta le carte.
Il marziano
Il suo nome è Ignazio Marino e quando si candida alle primarie è già un personaggio noto nella politica italiana. Chirurgo di fama internazionale, cattolico, ma laico e progressista sui temi dei diritti civili, Marino è senatore dal 2006 (prima con i Ds poi con il Pd) e nel 2009 ha partecipato alle primarie per la scelta del segretario arrivando terzo.
Si presenta come un candidato civico in netta rottura con le dinamiche del partito. Nella sua campagna elettorale, che inizia con lo slogan “Daje”, che significa più o meno “forza” in dialetto romano, fa più di una strizzata d’occhio alla retorica anti politica e anti casta incarnata soprattutto dal Movimento 5 Stelle, che alle politiche di febbraio ha avuto uno spettacolare exploit, raccogliendo un quarto dei voti.
Quando i suoi avversari si trovano in un teatro per un dibattito, ad esempio, Marino preferisce organizzare un giro in bicicletta per la città con i suoi sostenitori. Quando passa di fronte al teatro dove si svolge l’incontro, si fa fotografare all’esterno mentre con le dita fa il segno della vittoria.
Marino coltiva un’immagine di outsider e apprezza il soprannome che gli viene affibbiato per la sua apparente estraneità al potere cittadino: il “marziano”.
Ma questa immagine è almeno in parte artificiosa. A sostenerlo ci sono pezzi importanti del Pd. Primo tra tutti lo stesso Zingaretti, che ha rinunciato al comune per riconquistare la regione. Poi Goffredo Bettini, eminenza grigia del partito romano e tra i primi a notare il potenziale politico del chirurgo. Marino è sostenuto anche dalla sinistra: Sel, all’epoca guidata da Nichi Vendola, e Rivoluzione civile, l’effimera creatura politica del magistrato Antonio Ingroia.
Il 7 aprile, alla testa di questa eterogenea coalizione, il marziano sbaraglia la concorrenza. L'affluenza è alta, oltre centomila votanti, e Marino ottiene poco meno del 50 per cento dei voti. Sassoli, che fino a poco tempo prima era il favorito, deve accontentarsi del 20 per cento e Gentiloni soltanto del 15.
Il disastro
Dopo la vittoria alle primarie, Marino diventa sindaco di Roma, ma non dura a lungo. La sua giunta cade nell’ottobre 2015 per mano dei consiglieri della sua stessa maggioranza, dopo meno di due anni di rapporti tesissimi con il resto del partito, quello romano in particolare.
Nel frattempo, il Pd cittadino è stato travolto dallo scandalo di Mafia Capitale. Emanuele Buzzi, l’imprenditore delle cooperative accusato di corruzione, racconta di aver pagato i suoi dipendenti e gli abitanti di alcuni campi rom per partecipare alle primarie. Parla anche di un tariffario: dieci euro per votare alle primarie, venti per farsi una tessera del Pd.
Il colpo è doppiamente devastante per il Pd, ma il partito non ha tempo di sanare le ferite. Mentre la federazione cittadina viene commissariata, la città si prepara a tornare al voto già l’anno successivo. Se tre anni prima il partito aveva presentato tre candidati diversi sostenuti dalle principali correnti, nel 2016 sarà difficile individuarne uno soltanto.
Le primarie del 2016
In quei mesi, il Pd è ormai saldamente sotto controllo del segretario Matteo Renzi che si sta preparando a concludere l’approvazione della sua storica riforma costituzionale. La minoranza del partito è demoralizzata. Le elezioni di Roma, con il doloroso strascico della vicenda Marino, sono un evento che per quasi tutti è soprattutto fonte di fastidio. È solo dopo grandi ricerche e insistenze che Renzi finalmente trova il suo candidato. Si tratta di Roberto Giachetti, ex capo di gabinetto del sindaco di Roma Rutelli. Contro di lui, la minoranza del partito candida Roberto Morassut. Le primarie hanno un esito scontato. I votanti si dimezzano rispetto al 2013 e Giachetti vince con il 64 per cento dei voti. Altrettanto scontato è l’esito del voto a giugno. Giachetti passa il primo turno, ma viene travolto da Virginia Raggi che raccoglie oltre il 60 per cento dei voti.
La lezione
Difficilmente domenica il Pd andrà incontro a una sorpresa come quella di Marino nel 2013. Il candidato di partito Gualtieri ha uno sfidante principale, il presidente del terzo municipio Giovanni Caudo, sostenuto tra gli altri proprio dall’ex sindaco “marziano”. Ma la sua coalizione è molto meno forte di quella che appoggiava Marino e il Pd oggi si presenta più compatto di allora.
Il rischio più grande per il partito sembra quello di replicare le primarie del 2016: trionfo del candidato favorito seguito da sconfitta alle elezioni.
In particolare, c’è molto timore per l'affluenza. Il partito romano fa sapere che considererà un successo se domenica non si scenderà sotto i 40mila voti.
I nodi irrisolti del passato, intanto, continuano a pesare. La federazione romana non si è ancora ripresa dagli scandali.
I circoli chiudono o restano poco frequentati e il partito fatica a creare una classe dirigente locale, mentre la vicenda di Marino resta per molti una ferita aperta.
Si tratta di malattie che nel breve termine si possono curare in un solo modo. Con una vittoria netta, inaspettata e senza ambiguità.
Una vittoria che però, non solo per il Pd, ma per tutto il centrosinistra, oggi sembra davvero molto complicata.
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