- Venti punti di distacco in Lombardia e nel Lazio tra i due schieramenti.
- Il Pd si accontenta di arrivare secondo e di battere la concorrenza del terzo polo e dei Cinque Stelle, ma si trova di fronte a un blocco moderato e radicale del 50 per cento.
- E si deve confrontare anche col pericolo di restare eternamente all’opposizione
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Foto Stefano Porta/LaPresse 13-01-2023 Milano, Italia - Cronaca - Iniziato lo Spoglio delle schede elettorali per le Elezioni regionali della Lombardia nel Seggio 190 di Via Pietro Colletta February 13, 2023 Milan, Italy - News - The counting of the ballot papers for the Lombardy regional elections has begun in the polling station 190 in Via Pietro Colletta
Sabato pomeriggio, vigilia del voto regionale, nella biblioteca comunale di Colleferro una sala piena aspettava l'inizio della presentazione del libro di Benedetta Tobagi sulla Resistenza delle donne organizzato dall'agguerrita sezione locale dell'Anpi. Solo una persona schizzava inquieta di qua e di là, il sindaco Pierluigi Sanna, in affanno per il ritiro improvviso di presidenti di seggio e scrutatori. Una fatica condivisa dai colleghi del Lazio e della Lombardia. La degna conclusione delle elezioni senza campagna elettorale è stato un voto senza elettori.
Mai così bassa l'affluenza, In Lombardia alle elezioni politiche il 25 settembre 2022 aveva votato il 70 per cento, nel Lazio il 64,3. Nel 2018, alle ultime elezioni regionali, lo stesso giorno delle politiche, in Lombardia votò il 73 per cento, nel Lazio il 66,4.
Domenica e lunedì sono stati il 41,6 in Lombardia e il 37,2 per cento nel Lazio.
A Roma, nella capitale d'Italia, ha votato il 33 per cento: due elettori su tre sono rimasti a casa.
Il bipartitismo imperfetto
Dentro questo voto di minoranza ha vinto il centrodestra, come ampiamente previsto. E c'è il ritorno di una vecchia conoscenza della politica italiana, caro a generazioni intere di politologi e analisti.
Fu Giorgio Galli a inventare, quasi 57 anni fa, la formula del bipartitismo imperfetto. Quel sistema in cui un polo era destinato sempre a vincere e a governare e l'altro sempre ad arrivare secondo, senza possibilità di diventare maggioranza.
All'epoca il polo di governo si chiamava Democrazia cristiana, con i suoi alleati. E all'opposizione dominava il Pci, ma senza possibilità di competizione: per ragioni internazionali, la guerra fredda e la fedeltà all'Urss non ancora intaccata dagli strappi di Enrico Berlinguer, ma anche per robuste ragioni interne, l'isolamento politico che circondava il partito delle Botteghe Oscure.
Similmente, del voto del 12-13 febbraio per Lombardia e Lazio, così come per quello politico del 25 settembre 2022, colpisce la mancanza di gara per la conquista della vittoria.
In Lombardia è la norma da quando fu introdotto il sistema elettorale delle regioni, nel 1995: mai il centrosinistra si è avvicinato neppure lontanamente alla vittoria, il Pirellone è sempre stato un gioco tutto interno al centrodestra, dal ciellino-berlusconiano Roberto Formigoni ai leghisti Bobo Maroni e Attilio Fontana.
Situazione opposta per il Lazio: fino al 2013 è stata la regione in cui a ogni voto scattava l'alternanza, puntuale, insesorabile. Piero Badaloni, centrosinistra (1995), Francesco Storace centrodestra (2000), Piero Marrazzo centrosinistra (2005), Renata Polverini centrodestra (2010).
Nel 2013 vinse per la prima volta Nicola Zingaretti (Pd), ma con la comparsa in scena del Movimento Cinque Stelle che prese il 20 per cento.
Per quasi trent'anni nel Lazio lo scarto tra il centrodestra e il centrosinistra era stato al massimo di sei punti (nel 2000 Storace conquistò il 51,2, Badaloni il 45), in tutte le altre elezioni la partita si giocò in un pugno di percentuali, nel 1995 addirittura Badaloni superò il candidato berlusconiano Alberto Michelini di soli cinquemila voti.
Nel quartier generale del centrosinistra, alle due di notte, arrivarono i voti della provincia di Latina che portarono in testa la destra. E poi, di nuovo, un'altra altalena. Roba da cardiopalma.
Ieri il nome di Giorgia Meloni Francesco Rocca, una specie di Enrico Michetti fortunato, ha superato di circa venti punti il nome del Pd, l'assessore uscente alla Sanità Alessio D'Amato, che pure raccoglieva l'eredità politica di Zingaretti e un sistema di potere decennale. Alle cinque del pomeriggio il candidato sconfitto aveva già sbaraccato. Il Lazio sembrava ieri la Lombardia.
Al confronto il candidato del Pd lombardo Pierfrancesco Majorino sembrava un uomo quasi felice: per lui la corsa era battere Letizia Moratti e ha vinto. E questo riporta al sistema di bipolarismo imperfetto.
Il pentapartito di Meloni
Il centrodestra di governo uscito ieri in Lazio e Lombardia presenta un partito di maggioranza relativa, Fratelli d'Italia, che ha un primato ancora da consolidare, ma in apparenza granitico, e che non cannibalizza più di quanto abbia già fatto gli altri partner della coalizione, la Lega e Forza Italia, confermati nelle percentuali delle politiche di settembre.
Assomiglia al pentapartito anni Ottanta. Diviso, litigioso, dilaniato dai personalismi dei leader, ultimo episodio l'esternazione pro-Putin di Silvio Berlusconi a urne aperte, ma premiato dalla minoranza degli elettori come l'unica coalizione possibile di governo.
Il centrosinistra, invece, fa muro attorno al Pd che nelle regioni al voto tiene o migliora di poco il risultato di settembre, attorno al venti per cento.
A uscire sconfitte, nelle due regioni, sono le alternative terzopoliste, sia nel formato centrista (il terzo polo al 3,9 in Lombardia, nel voto politico del 2022 aveva preso il 10) sia nel formato 5 Stelle (il 9 per cento nel Lazio, contro il 15 raccolto nel 2022). Il Pd alla vigilia del congresso ha così di fronte una opportunità e un problema gigantesco.
Ritorno al bipolarismo?
L'opportunità si chiama ritorno del bipolarismo: dopo il 2013, con il Movimento Cinque Stelle al 25 per cento e Scelta Civica di Mario Monti al 10, il sistema politico si è modellato su tre forze, assegnando la vittoria a una forza di minoranza o più spesso, nelle elezioni del 2013 e del 2018, a nessuno.
L'assorbimento delle forze terzopoliste può essere una buona notizia per il Pd: se giochi una sfida bipolare fuori da centrodestra e centrosinistra finisci per andare a sbattere.
Carlo Calenda e Giuseppe Conte hanno da mesi scommesso sul risultato opposto: strattonare il Pd di qua e di là per spartirsi i resti, in vista delle elezioni europee del 2024 in cui per entrambi i leader l'obiettivo è superare il partito di largo del Nazareno. Lombardia e Lazio erano tappe intermedie: sono andate male. Senza il Pd non si costruisce una alternativa.
Evviva, ha dichiarato il segretario Enrico Letta al passo d'addio: «Siamo il secondo partito italiano e il primo partito di opposizione». Un risultato che avrebbe potuto far esultare un tempo Luigi Longo e i titolisti dell'Unità dell'epoca che titolavano sulle nuove «impetuose» avanzate del Pci a ogni percentuale conquistata.
Ma oggi non basta arrivare secondi e aver battuto i terzi e i quarti. Il problema politico è che l'esito elettorale delle regionali di ieri, unito a quello politico di settembre, chiude una fase lunga, durata trent'anni.
La data simbolo è quella del 18 aprile 1993, il referendum promosso da Mario Segni che portò l'Italia nella democrazia del maggioritario. Quel voto popolare segnò l'inizio delle sperimentazioni sulle leggi elettorali, a partire dal Mattarellum.
Ma soprattutto, per gli elettori italiani, fu l'inizio dell'età della competizione e dell'alternanza di governo. Un valore inestimabile, per un Paese che aveva sempre conosciuto la democrazia bloccata, l'unico con il Giappone a non assistere alla scena di ex ministri che si abituavano all'opposizione.
Elezioni in cui la coalizione di centrosinistra poteva vincere o perdere, a volte perdere in modo catastrofico, come nel 1994, 2001, 2008, ma mai rinunciare a gareggiare per accontentarsi del secondo posto o del primo dell'opposizione, che è la stessa cosa.
La sfida del nuovo Pd
Può darsi che sia già magicamente sparito il vento di un terzo polo formato Calenda o versione Conte che soffia al Pd anche questo falso primato. Ma poi resta la realtà cruda di un partito carico di generali, colonnelli, ex ministri, vecchie glorie che oggi raggiunge se va bene un quinto dell'elettorato e governa soltanto quattro regioni su venti: la riserva appenninica ridotta a Emilia-Romagna e Toscana e le due repubbliche autonome del Sud, Campania e Puglia.
Anche questo spiega il peso enorme che hanno raggiunto i presidenti di queste regioni, ben più dei capicorrente romani e degli ex ministri senza truppe alle spalle.
Non per niente Vincenzo De Luca, Michele Emiliano, Eugenio Giani appoggiano per la segreteria il quarto presidente, Stefano Bonaccini.
Il ritorno del bipolarismo imperfetto chiama con sé il pericolo di un sistema senza alternativa, senza ricambio. Una beffa atroce per il Pd che negli ultimi dieci anni il Pd ha scommesso sullo scenario opposto.
Si è sentito inamovibile dal governo. Si è atteggiato a partito di sistema. Ha puntato sul fatto che i partiti populisti non avrebbero vinto le elezioni o non sarebbero riusciti a governare.
Il nuovo segretario (o la nuova segretaria) che uscirà dal congresso tra due settimane si troverà con un partito confinato all'opposizione non per una conventio ad excludendum internazionale, ma per l'incapacità di una generazione di dirigenti di stabilire un sistema di alleanze e soprattutto di parlare a quei cinque-sei milioni di elettori che in passato hanno votato per il Pd e che oggi non sono più disposti a farlo.
Servirà una leadership nuova, che volti pagina con la vocazione a stare sempre al governo e torni a battersi nella società. Quelle fin qui sperimentate hanno lasciato al centrodestra campo libero e un inedito blocco sociale di riferimento.
Un mix di moderatismo senza Stato, senza dimensione pubblica, che ha in odio la politica, e di radicalismo ideologico, voglia di rivincita e di non fare prigionieri, interpretato da alcuni capi e esponenti dei partiti di governo.
L'Italia prosciugata di partecipazione rischia una nuova stagione di democrazia bloccata. Senza la saggezza delle classi dirigenti del passato.
Il primato del centrodestra potrebbe consolidarsi fino a diventare voglia di occupazione di ogni ramo di sottogoverno e di potere, con la tentazione di atteggiarsi a padroni del paese che i democristiani hanno sempre evitato, anche quando potevano vantare la maggioranza assoluta in un elettorato che votava al 90 per cento. Per l'altra Italia, invece, servirà qualcosa di più di Sanremo, per non finire fuori gara.
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