La premier si scaglia contro i suoi parlamentari traditori, Tajani non perde occasione per infastidire il “capitano” che imbarazza un po’ tutti. Sarebbe il momento delle opposizioni, ma sono divise
L’infamia di pochi, è la fatwa che Giorgia Meloni ha lanciato contro i suoi stessi eletti sulla chat dei parlamentari di Fratelli d’Italia, i pochi che girano all’esterno i messaggi che circolano dentro il partito.
Lo sfogo della premier, prontamente rilanciato dagli infami in questione sul Fatto quotidiano, arriva nel momento più delicato e confuso per la maggioranza di governo.
Ieri pomeriggio il ministro degli Esteri e capo di Forza Italia Antonio Tajani ha presentato la proposta di legge sulla cittadinanza, ribattezzata Ius Italiae. Lo ha fatto a Milano, a poche ore di distanza dal comizio di Matteo Salvini di questa mattina al raduno di Pontida, dedicato alla sicurezza dei confini. Una provocazione subito raccolta. Pochi minuti dopo, a Pontida, gruppi di giovani leghisti hanno dedicato cori di vaffa al capo del partito alleato al governo, guidati da un consigliere comunale leghista di Milano, e perfino uno striscione definitivo: «Tajani scafista». Quattro scemi, sono stati subito liquidati dai vertici leghisti, come i pochi infami dentro FdI. Ma intanto la tensione sale.
La kermesse leghista è una specie di congresso a cielo aperto degli orbaniani d’Europa, guidati dal loro capo, il premier ungherese Viktor Orbán. Nel 1990, quando Umberto Bossi convocò la prima manifestazione, il muro di Berlino era caduto da pochi mesi, il sistema politico sembrava consolidarsi attorno ai vincitori della guerra fredda, in Italia i partiti di governo, la Dc, il Psi, mentre il Pci era immerso in una interminabile transizione.
Invece il muro stava per crollare anche in Italia, la Lega che conquistava le due cifre a Milano e in Lombardia era un sintomo vistoso. Anche Viktor Orbán, all’epoca, era un giovane libertario, anti-comunista, finanziato da Georges Soros, un ardente combattente per gli ideali democratici.
Oggi Orbán, Salvini e i loro compagni di ventura sognano muri rialzati, fili spinati riallacciati, ai confini e perfino in mezzo al mar Mediterraneo, ma sono anche le punte avanzate di una guerra di egemonia tra le destre europee, unite nella difesa delle tradizioni e divise dagli interessi nazionali e dalle rivalità.
Nella destra italiana il potere passò di mano esattamente cinque anni fa, nell’ottobre 2019, quando Salvini, reduce dalla suicida crisi di governo del Papeete, convocò una manifestazione a Roma, con l’intero centrodestra, Silvio Berlusconi compreso. Per il leader leghista doveva essere il momento della riscossa, invece sul palco salì la leader di Fratelli d’Italia, fino a quel momento comprimaria: «Io sono Giorgia...», cominciò, e il resto lo sappiamo.
Il capo leghista non ha mai accettato di diventare un secondo, così come all’opposizione il leader dei 5 Stelle Giuseppe Conte vive per ritornare a Palazzo Chigi e considera usurpatori tutti gli altri ipotetici pretendenti. L’anno scorso a Pontida Salvini abbracciò Marine Le Pen, mentre Meloni portava Ursula von der Leyen a Lampedusa. Oggi, se possibile, con l’ospite Orbán si sposterà ancora più a destra.
I rapporti di forza appaiono saldamente in mano alla premier, dopo due anni di governo, ma gli ultimi sondaggi fotografano una sfiducia in aumento, una possibile sconfitta della maggioranza in caso di referendum sull’autonomia, dati economici sulla crescita al ribasso secondo le previsioni, il ministro (leghista) Giancarlo Giorgetti che invoca sacrifici e con una battuta sul rialzo delle tasse fa crollare la Borsa. E gli alleati di governo impegnati in una gara tra opposti estremismi: il moderato Tajani contro il sovranista Salvini.
La risposta di Meloni è blindare il suo potere allargandolo ad altre istituzioni: la Corte costituzionale con la nomina di Francesco Saverio Marini, consigliere giuridico della premier, l’estensore materiale dello sbrego alla Carta noto come riforma del premierato, figlio del giudice e presidente della Corte costituzionale Annibale Marini che fu eletto in quota An, proposto da Gianfranco Fini, una dynasty che si perpetua.
Ma dopo due anni di governo la maggioranza mostra vistose crepe interne, nascoste soltanto dalla tela strappata da Giuseppe Conte tra le opposizioni. Dovrebbe essere il momento dell’unità, come hanno scritto ieri sul Domani Carlo Trigilia e Franco Monaco.
Invece, è un segnale non incoraggiante l’assenza di ieri del capo del Movimento 5 Stelle Conte all’incontro dei promotori del referendum sull’autonomia differenziata, in presenza di tutti gli altri leader o quasi, un’assenza che politicamente vale il comizio di oggi di Salvini di Pontida. La necessità di trovarsi un ambito non oscurato dalle due donne alla guida dei partiti maggiori, Meloni e Elly Schlein, che oggi accomuna i leader secondi.
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