Prima dello scoppio della più grande inchiesta di corruzione della storia recente, l’Italia era un paese in crisi e con una classe politica distante e disprezzata: trent’anni e migliaia di arresti dopo, la situazione non sembra essere cambiata.
Sono passati esattamente 30 anni dall’inizio dell’inchiesta Mani Pulite e Tangentopoli, lo scandalo giudiziario che ha segnato un’epoca, tra gli eventi più importanti tra quelli che hanno contribuito a creare l’Italia di oggi.
Tangentopoli fu l’insieme di inchieste della magistratura che tra 1992 e 1994 scoperchiò un vasto sistema organizzato di corruzione utilizzata da tutti i partiti per finanziare le loro attività e, in molti casi, per arricchire singoli politici e dirigenti.
Mani Pulite è il nome della prima è più vasta di queste inchieste, quella condotta dal gruppo di magistrati di Milano di cui facevano parte nomi entrati nella storia italiana: Antonio Di Pietro, Gherardo Colombro, Ilda Boccassinni, il procuratore Francesco Saverio Borrelli. Altre inchieste furono condotte in tutte il paese, coinvolgendo centinaia di politici e imprenditori. Tra il 1992 e il 1996, ci furono una media di duemila persone indagate per corruzione, concussione o altri reati cosiddetti “contro i doveri d’ufficio” ogni anno. Cifre mai raggiunte in precedenza e mai più raggiunte negli anni successivi.
Tangentopoli portò al crollo degli storici partiti che avevano guidato la Prima repubblica, ma non generò una moralizzazione della vita italiana. I problemi alla radice della corruzione e della generale percepita immoralità della vita pubblica non sono cambiati.
La scomparsa dei grandi partiti ha messo fine al finanziamento illecito organizzato, ma il nostro paese rimane uno dei più corrotti dell’Europa occidentale secondo tutti i principali indicatori, anche se in forme e modi diversi rispetto al passato.
L’eredità stessa di Tangentopoli e dell’azione dei magistrati è divenuta controversa. I metodi di indagine che in certi casi hanno superato il confine delle garanzie per gli indagati, lo stretto rapporto creato dai magistrati con la stampa, sono diventati l’elemento centrale in un processo di “revisionismo” ancora in atto.
Mani Pulite
L’inchiesta Mani Pulite e lo scandalo di Tagentopoli iniziano il 17 febbraio del 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, politico socialista di seconda fila e presidente della più grande struttura di cura e ricovero degli anziani di Milano, il Pio Albergo Trivulzio.
Chiesa viene arrestato da Antonio Di Pietro, quello che sarebbe divenuto il più carismatico e popolare dei magistrati del “pool” di Mani Pulite, mentre riceveva una tangente da un imprenditore. Durante l’arresto, Chiesa si liberò di un’altra tangente che teneva nel cassetto gettandola nello scarico del water (il racconto sullo scarico bloccato e la fuoriuscita di liquami, per quanto suggestivo, è probabilmente apocrifo e Chiesa nega di aver gettato qualsiasi cosa nel gabinetto).
Da quel momento gli arresti si susseguirono uno dopo l’altro. Come in un gigantesco domino, ogni indagato conduce ad altri indagati. Gli imprenditori denunciano i colleghi che hanno pagato insieme a loro tangenti per ottenere appalti pubblici. I politici di seconda fila coinvolti si affrettano a denunciare i superiori non appena questi accennano a scaricarli.
In breve diviene chiaro che i magistrati non avevano di fronte numerosi casi di corruzione slegati l’uno dall’altro, ma un sistema strutturato e preciso, in cui per vincere appalti o realizzare opere pubbliche era necessario pagare tagenti, attentamente calcolate sull’importo totale dei lavori.
Queste tangenti venivano poi redistribuite a tutti i partiti. A Milano, il 50 per cento di quanto raccolto spettava al Partito socialista italiano (il Psi), fortissimo in città, il 20 per cento alla Dc, il 20 per cento al Pds (partito erede del Pci) e il resto ai partiti minori.
Inizialmente, i leader nazionali e locali parlano di poche mele marce. Bettino Craxi, il potente e carismatico leader del Psi, dice che il suo partito era vittima del cattivo comportamento di «pochi mariuoli». Ma le inchieste stavano rapidamente assumendo una dimensione che era impossibile trascurare.
Erano ormai decenni che la corruzione della classe politica veniva data per scontata, così come veniva dato per scontato che i politici non pagassero mai. Le indagini stavano dando la stura a un sentimento diffuso.
Alle elezioni politiche dell’aprile 1992, a meno di due mesi dall’inizio dell’inchiesta, i partiti tradizionali subirono un tracollo di fronte all’ascesa della Rete, movimento del sindaco di Palermo Leoluca Orlando, e la Lega Nord di Umberto Bossi, che a Milano divenne il primo partito.
Le polemiche
I magistrati di Mani Pulite vengono accolti come eroi da un’opinione pubblica non solo stanca di corruzione e soprusi, ma che all’inizio degli anni Novanta, per la prima volta da molto tempo, sente venire a mancare la spinta verso la crescita che c’era stata fino a quel momento. L’Italia è entrata in quel lungo trentennio di stagnazione che dura ancora oggi. Molti italiani hanno la sensazione che non solo la classe politica è corrotta, ma che ha anche smesso di fare il suo lavoro.
Di Pietro diventa uno dei personaggi più popolari del paese. Si organizzazione manifestazioni e fiaccolate di solidarietà con il pool. A Milano, sui muri compaiono graffiti con scritto “Grazie Di Pietro”. I media si accodano. Le procure sono presidiate dagli inviati della cronaca giudiziaria, dai fotografi e dalle telecamere. L’arrivo di un nuovo arrestato, la notizia di un nuovo inquisito vengono accolto da torme di giornalisti che fanno a gara per seguire l’inchiesta.
Anche se gran parte dell’opinione pubblica e dei media è dalla parte dei magistrati, non mancano le voci critiche. Craxi è il più deciso e fermo oppositore del pool, mentre la Dc appare più timorosa. «Non è tutto oro quel che luccica. Presto scopriremo che Di Pietro è tutt'altro che l'eroe di cui si sente parlare. Ci sono molti, troppi aspetti poco chiari su Mani Pulite», scrive Craxi ad Agosto sul suo giornale di partito, l’Avanti.
Per Craxi e un gruppo di opinionisti e intellettuali, ristretto, ma capace di far sentire la sua voce, le azioni del pool sono frutto di un disegno politico. Un modo di eliminare per via giudiziaria avversari politici, al quale collaborano insieme forze di estrema destra e sinistra, forse persino col beneplacito degli Stati Uniti, a cui non piacerebbe l’atteggiamento troppo indipendente di Craxi.
Le critiche colpiscono anche i metodi dei magistrati. Le inchieste procedono veloci e di allargano a macchia d’olio perché gli indagati confessano a decine. E quasi tutti i protagonisti ammetteranno di aver confessato perché terrorizzati dal carcere. I magistrati fanno ampio uso della carcerazione preventiva. Centinaia di persone, spesso anziani, quasi tutti ricchi e potenti e abituati a comandare, si ritrovano arrestati, a volte di sorpresa e in piena notte, condotti fuori di casa o in tribunale circondati da fotografi e giornalisti, sottoposti alla rituale umiliazione della camminata in manette in mezzo a due ali di folla. Poi finiscono sbattuti nelle stanze anguste delle carceri, con compagni di cella che a loro sembrano alieni. Lo shock è enorme e quasi tutti parlano.
Alcuni, invece, non reggono alla prospettiva di passare attraverso tutto questo. Il 17 giugno si uccide Renato Amorese, segretario del Psi di Lodi. Era stato interrogato da Di Pietro il giorno prima. Il 2 settembre si uccide il deputato socialista Sergio Moroni, molto vicino al leader socialista. «Hanno creato un clima infame», commenterà Craxi all’uscita dalla camera ardente.
Il finale
Tra la fine del 1992 e l’inizio del 1993, le inchieste continuano ad allargarsi e altre procure in tutta Italia seguono le orme del pool di Mani Pulite. I magistrati iniziano a puntare ai leader di partito. Il sistema capillare di corruzione e finanziamento dei partiti, sostengono, non può essersi svolto all’insaputa di segretari e presidenti.
E tra loro, il bersaglio numero uno è lui: Craxi. Il politico più influente del paese, la figura carismatica che ha preso il mantello della difesa della classe. Il giornalista Vittorio Feltri, all’epoca direttore dell’Indipendente ed entusiasta sostenitore del pool (posizione che ha poi rinnegato), soprannomina Craxi “il chiangolone”: l’animale più pregiato della partita di caccia.
I magistrati iniziano ad aprire indagini sui più importanti personaggi politici italiana. I telegiornali sembrano i bollettini della pandemia, dove al posto di nuovi casi e decessi vengono letti i numeri di avvisi di garanzia spediti quel giorno. L’edizione del Tg3 del 15 marzo inizia con questa lettura: «Dieci avvisi di garanzia ad altrettanti parlamentari tra cui esponenti politici di primo piano. Renato Altissimo, segretario del Pli al primo avviso di garanzia, Bettino Craxi all'ottava informazione di garanzia, Severino Citaristi, segretario amministrativo della Dc, alla 17esima, Antonio Cariglia, Partito socialdemocratico, al primo avviso di garanzia. Terzo avviso per Antonio del Pennino, ex capogruppo del Pri alla Camera».
Dopo un anno di indagini, oltre cento parlamentari e quasi tutti i principali leader di partito coinvolti nello scandalo, in molto iniziano a temere per la stabilità delle istituzioni democratiche. Dove si fermeranno i magistrati e come si può governare legittimamente il paese in queste condizioni?
Il governo, guidato dal socialista Giuliano Amato, tenta una soluzione e approva il decreto Conso, dal nome del ministro della Giustizia Giovanni Conso. L’idea è semplice: depenalizzare il finanziamento illecito ai partiti e inasprire le pene per gli arricchimenti personali, così da mettere un chiaro confine tra condotte personali e quello che invece era frutto del modo di funzionare del sistema.
Il decreto però viene bloccato. Gran parte dei giornali attacca quello che viene accusato di essere un “colpo di spugna”, ci sono manifestazioni in piazza sostenute dai partiti di opposizione: dagli ex comunisti del Pds ai neofascisti del Movimento sociale italiano. Il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, per la prima volta si rifiuta di firmare il decreto che finisce così archiviato.
Tangentopoli è arrivata all’acme e anche per Craxi è arrivato il momento di cedere. Nel suo interrogatorio di fronte a Di Pietro e nei suoi ultimi discorsi al parlamento, si difende con energia, accusando i magistrati per i loro metodi e quelli che ritiene essere i loro disegni politici e giustificando le tangenti con i costi necessari della democrazia.
Ma i magistrati arrivati a questo punto hanno abbastanza indizi di arricchimenti personali anche sul suo conto. Si parla di conti segreti in Svizzera, di finanziamenti alle attività dell’amante e a quelle del fratello. Dopo le elezioni del 1994 in cui non è riletto per la prima volta in Parlamento in oltre 25 anni, Craxi si trova senza immunità parlamentare. Il 12 maggio viene disposto il sequestro del suo passaporto, ma è troppo tardi. Pochi giorni prima, l’ex leader socialista ha lasciato l’Italia e si è trasferito ad Hammamet, in Tunisia, dove trascorrerà i suoi ultimi anni fino al decesso, avvenuto il 19 gennaio del 2000.
Le inchieste proseguiranno ancora per anni e il numero di indagini per corruzione inizierà a calare significativamente solo a partire dal 1996 per poi non raggiungere mai più il livello toccato nel periodo precedente. Ma è il 1994 l’anno in cui simbolicamente termina Tangentopoli. E non solo per via della fuga di Craxi.
È anche l’anno in cui, alle prime elezioni senza Dc e Pci dal 1945, trionfano Silvio Berlusconi e Forza Italia, che della guerra alla magistratura farà un punto centrale del suo messaggio politico. I movimenti che invece avevano sostenuto i magistrati vengono sconfitti, come il Pds, scompaiono, come la Rete, oppure si riconvertono ad altre istanze, come la Lega.
Prima di Tangentopoli, l’Italia era un paese stagnante e in crisi, con una classe politica distante dagli elettori e disprezzata per la sua corruzione. Sono passati trent’anni e il quadro non sembra essere poi così cambiato.
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