Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore


L’indagine “Pizza Connection”, condotta dagli investigatori statunitensi, fornì a Giovanni preziosissimi elementi per il processo maxi-uno. Trovò così conferma l’intuizione di un giudice lungimirante – non visionario, come definito dai suoi detrattori – sulla necessità della collaborazione tra le nazioni per fare fronte comune, sul versante sia preventivo che repressivo, alle organizzazioni criminali che, già allora, facevano affari fuori i confini nazionali, spartendosi un mercato miliardario. E anche sulla scorta dell’esperienza maturata negli Usa e nel pool antimafia, Giovanni, lasciate le funzioni di Procuratore aggiunto presso la Procura di Palermo e assunte quelle di responsabile della Direzione Generale degli Affari Penali dell’allora Ministero di Grazia e Giustizia, si adoperò affinché il legislatore adottasse provvedimenti legislativi inediti, mirando a dotare la magistratura e le forze dell’ordine di strumenti innovativi di contrasto al crimine organizzato.

E non è un caso se oggi, nella scuola dell’FBI di Quantico, sia esposto il busto di Giovanni Falcone, per iniziativa di Louis Freeh, già direttore del bureau, in ricordo perenne della “più alta rappresentazione della Giustizia e dello Stato”. E anche una sala del quartier generale di Washington lo ricorda nella “Giovanni Falcone Gallery”.

“Pizza Connection” era in pratica il proseguimento del processo Spatola.

Il business si sostanziava nell’esportazione di droga per circa 2.000 miliardi di lire che vennero poi occultati nelle banche dello stato delle Bahamas e di altri Paesi offshore. Nel corso delle indagini, constatato che gli imputati parlavano al telefono in stretto dialetto siciliano, fu necessario inviare negli Stati Uniti poliziotti in grado di comprendere quel dialetto e tradurre in diretta le conversazioni telefoniche.

Il processo celebrato negli Usa, durato un paio di anni, non ebbe uno svolgimento del tutto tranquillo, a cominciare dalle necessarie precauzioni nella scelta dei giurati i cui nomi vennero tenuti segreti. Ma, nonostante l’adozione di questo accorgimento, uno di essi fu costretto a rinunciare all’incarico perché la sua famiglia aveva ricevuto delle minacce.

La cosa curiosa è che la “Pizza Connection” non registrò il sequestro di neanche un grammo di eroina. Tutto si basava sulla tracciabilità del denaro.

L’indagine mise in evidenza il ruolo della Sicilia come produttore di eroina. All’inizio i mafiosi siciliani ricorrevano alle doti professionali di chimici marsigliesi o corsi, come accertato grazie a una segnalazione della polizia francese che avvisò i colleghi italiani dell’arrivo di un certo André Bousquet, catturato con altri due francesi che risiedevano all’hotel Riva Smeralda di Carini dove dei poliziotti, travestiti da camerieri, li tenevano d’occhio. I pedinamenti portarono gli agenti di polizia fino al laboratorio dove lavoravano i francesi, e qui venne arrestato anche Gerlando Alberti, soprannominato “’u paccaré“, cioè l’imperturbabile, un personaggio della mafia degli anni Sessanta. Era l’agosto del 1980. Era la prima raffineria di droga scovata in Sicilia. A questa operazione fece

seguito la scoperta subito dopo della seconda raffineria.

Un successo che Carmelo Jannì, proprietario dell’albergo dove i poliziotti avevano agito sotto mentite spoglie, pagò con la vita. Durante le fasi dell’arresto, infatti, in uno dei poliziotti i mafiosi riconobbero il cameriere che li aveva serviti in hotel. Collaborare con lo Stato poteva essere molto rischioso.

La fine dell’alleanza con i chimici francesi portò alla ribalta Pietro Vernengo che divenne il nuovo chimico, responsabile della raffinazione della morfina base e della produzione di eroina.

Vernengo però non si dimostrò all’altezza – era stato studente di chimica e per questo nel

suo ambiente lo chiamavano “’u dutturi” – e combinò un disastro quando a New York ci fu una serie di decessi a seguito dell’assunzione della droga prodotta a Palermo.

Gli americani erano furibondi e a quel punto subentrò Francesco Marino Mannoia, che invece se la sapeva cavare molto meglio, e la situazione venne risolta.

Il traffico mondiale di droga inizia qui, da quelle raffinerie, situate dove Cosa nostra aveva il pieno controllo del territorio, che avevano bisogno di tanta acqua ed energia elettrica per funzionare. Per questo, nella zona della nostra casetta estiva di Trabia, succedeva a volte che la luce elettrica si affievolisse o addirittura si spegnesse.

Scoprimmo dopo che una raffineria era in funzione proprio da quelle parti. Dalle zone dove mancava spesso la luce partivano le indagini finalizzate alla scoperta dei laboratori che facevano ricca la mafia di Palermo.

Tutta questa storia è stata ricostruita, in quel piccolo bunker, grazie al prezioso lavoro e al diuturno impegno dei nostri due Dioscuri.

Un fil rouge, mai spezzato, ha legato indissolubilmente le vite e il comune destino di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Dapprima, l’adolescenza trascorsa insieme nel rione di Palermo dove erano nati e le loro famiglie abitavano, poi la scelta, terminati gli studi scolastici, di iscriversi alla facoltà di giurisprudenza e la decisione di partecipare, conseguito con il massimo dei voti il diploma di laurea, al primo concorso utile per entrare in magistratura, superato brillantemente da entrambi. Poi, lasciati alle spalle gli anni di tirocinio e delle prime assegnazioni a sedi giudiziarie fuori Palermo, l’approdo di entrambi, in tempi diversi ma prossimi, all’Ufficio di Istruzione del Tribunale del capoluogo. Così tutto ebbe inizio.

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