Non solo l’attentato a Salvo Lima. Avevamo deciso di mandare segnali precisi alla fu Democrazia cristiana e ai suoi esponenti, con tutta una serie di attentati: il 31 marzo a Misilmeri, al comitato elettorale di Calogero Mannino, il 1 aprile a Monreale alla sede della Dc; sempre il 1 aprile, ma a Partinico, abbiamo dato fuoco all’auto di un assessore Dc; il 3 aprile a Messina, altra sede della Dc, stessa data a Scicli, a casa del vicepresidente della Provincia di Ragusa, democristiano...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.
Si era deciso di cominciare da Salvo Lima. Sia per il significato e per quello che rappresentava, l’uomo, il politico, lo statista (si coglie l’ironia?), sia perché, obiettivamente, era quello più semplice da fare. Salvo Lima era nel nostro libro nero da tempo, come i cugini Nino e Ignazio Salvo, perché si guardavano solo il loro giardinello, alla faccia di tutti i servizi e di tutti i favori. Lima lo avevamo pure convocato, e non si era presentato. E la rabbia era tanta che magari avremmo voluto uccidergli pure il figlio.
Fu come quando alla festa del santo patrono c’è il gioco di fuoco finale, con tutti che stanno con il naso all’aria, nel fresco della sera di mezza estate, che già ha fatto buio da un pezzo, e si attende che il santo torni in chiesa e che il parrino dia l’ok al presidente del comitato organizzatore, che dice a quello dei fuochi che si può cominciare. E il primo colpo, solitamente, è una specie di colpo d’avvertimento, una cosa a mezza botta, puuum, pam!, ma serve a svegliare i picciriddri e a fare scantare i cani, a interrompere la noia dell’attesa dei mangiatori di simenza e a dire che lo spettacolo sta per cominciare, puuum, pam!, e dopo c’è la masculiata. Viva il santo!
E fu così, per noi, l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, in Via delle Palme, a Palermo, il 12 marzo del 1992, che veniva di giovedì, e fu poco prima delle dieci del mattino. Come già sapevamo, si fece trovare impreparato, senza possibilità di scampo e di fuga.
Gli sparammo diversi colpi con le nostre scariche di precisione, mentre lui faceva i movimenti di bestia ammazzata: un colpo al sindaco di Palermo, uno al sottosegretario, uno alla punta di diamante della Dc, uno all’europarlamentare. Uno al santo. Uno al traditore. «Tornano, tornano» furono le sue ultime parole. Non un granché come epitaffio. Anche perché noi mica eravamo mai andati via.
Il messaggio fu bello forte per Giulio Andreotti, che l’indomani doveva venire in Sicilia, e anche per farlo desistere nella sua idea di diventare presidente della Repubblica. E sapete quando parli a suocera per fare capire a nuora? La suocera era Andreotti, la nuora era il dottore Falcone, che siccome ci conosceva benissimo sembrava quasi aver capito tutto, e il giorno dopo scrisse un articolo su «La Stampa»: «La mafia vuole comandare. E se la politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola».
Sul concetto di «strada» forse aveva avuto una mezza visione, che più di strada era un’autostrada quella che si sarebbe aperta, nel vero senso della parola, da lì a breve. Sulla politica, invece, neanche noi ci capivamo più nulla. Perché eravamo in guerra, e ne avremmo voluti eliminare di politici traditori, ma era cominciata quella cosa del pool Mani Pulite, a Milano, e il popolo fibrillava, e i politici un po’ venivano arrestati, qualcuno si ammazzava, altri scomparivano. Che casino.
Gli occhi di Riina facevano come una saetta, nelle riunioni, sembrava avesse un tic, non stava mai fermo, tutta un’eccitazione. Matteo no, Matteo era calmissimo, come sempre, elegante, come lo conoscevamo noi. Aveva sempre la risposta pronta e una pistola carica. Avremmo capito solo dopo che stava preparando il suo regolamento di conti, la sua piccola battaglia nella grande guerra, la rivoluzione silenziosa nella linea di successione.
Il signor Riina pareva sempre più una "cafittera” pronta a esplodere. Anche su ’sta cosa di Mani Pulite non ci vedeva chiaro, gli dava fastidio, e anche se non ce lo voleva dire, perché non poteva dirlo – se no saremmo diventate le bestie che eravamo, lo avremmo scannato, altro che la rivoluzione silenziosa di Matteo – lui sapeva di essere anche lui una pedina di qualche altro tavolo, ed era manovrato, e qualcuno tirava i dadi per lui, e lo faceva avanzare di casella in casella fino all’esplosione finale, alla dissoluzione.
Non solo lo sapeva, e non poteva dirlo, ma sapeva anche che in questo gioco grande in cui era finito non conosceva il regolamento. E quindi, sì, anche ’sta cosa degli arresti di Mani Pulite ci dava fastidio. Innanzitutto, perché ci mancavano gli interlocutori. Se un poco li ammazzavamo noi, un poco li arrestavano, noi con chi dovevamo parlare? Della Dc tra poco non c’era in giro manco l’usciere, Craxi aveva paura a girare per strada che gli lanciavano le monetine.
Chi restava? Vedrete, vedrete, qualcuno di nuovo affaccerà, dicevano quelli di noi più avvezzi alle cose della politica; i Graviano, in particolare, avevano buoni contatti a Milano, e a Milano già le cose si muovevano per non lasciarci orfani: male che vada avremmo rifatto il trucco a qualche troia.
Ma la cosa che ci dava ancora più inquietudine di questa roba di Mani Pulite, di questi pezzenti con il sorcio in bocca, che si facevano prendere mentre buttavano i soldi nel cesso, era il fatto che il nostro sesto senso ci diceva che anche lì c’era lo zampino del dottore Falcone; che quello magari era un giro largo, e anziché partire dalla mafia per arrivare agli imprenditori, voleva partire dagli imprenditori del nord per poi scendere giù giù e arrivare a noi. Anche là, comunque, ci fate un piccolo torto quando parlate solo dell’attentato a Salvo Lima, in quel periodo.
Capiamo che era la portata principale, ma c’erano tanti contorni, perché avevamo deciso di mandare segnali precisi alla fu Democrazia cristiana e ai suoi esponenti, con tutta una serie di attentati: il 31 marzo a Misilmeri, al comitato elettorale di Calogero Mannino, il 1 aprile a Monreale alla sede della Dc; sempre il 1 aprile, ma a Partinico, abbiamo dato fuoco all’auto di un assessore Dc; il 3 aprile a Messina, altra sede della Dc, stessa data a Scicli, a casa del vicepresidente della Provincia di Ragusa, democristiano.
Erano piccole cose, si dirà; certo, erano puntini, come un segnale in codice morse, e il messaggio era: il peggio deve ancora venire. E Matteo è stato bravo anche in questa pianificazione di piccoli attentati, perché abbiamo delegato le famiglie di ogni parte della Sicilia, abbiamo individuato sedi di partito e comitati elettorali in ogni angolo, ma non in provincia di Trapani.
Ancora una volta, stava in prima fila, Matteo, ma mandando avanti gli altri; voleva mantenerci nel nostro cono d’ombra, coccolati fin quando era possibile dalla mamma, sconosciuti al mondo. Era come se non esistessero obiettivi sensibili da colpire in provincia di Trapani, come se non esistesse la Dc. Come se non esistesse la mafia.
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