- Negli ultimi decenni, Cuba a parte, le sanzioni statunitensi in America Latina hanno riguardato soprattutto il Venezuela.
- Sono iniziate durante l’amministrazione Obama, nel 2015, sulla base del presupposto che la persecuzione delle opposizioni e le violazioni dei diritti umani praticate dall’esecutivo rappresentavano «un’insolita e straordinaria minaccia alla sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti».
- Fra il 2017 e il 2019 l’amministrazione Trump ha adottato una serie di misure che sono andate a colpire soprattutto la produzione e la vendita di petrolio, aggravando la situazione economica e la crisi umanitaria del paese.
Durante la Guerra fredda, in America Latina, le sanzioni riguardarono quasi esclusivamente Cuba. Frutto indigesto della crociata anticomunista nella regione, furono comminate dagli Stati Uniti o dall’Organizzazione degli stati americani (Osa), sempre dietro insistenza di Washington. Raramente altre nazioni divennero oggetto di misure analoghe. Ancor più infrequenti risultarono le sanzioni di organismi extra-continentali.
Con la fine del conflitto bipolare, le sanzioni hanno riguardato prevalentemente il Venezuela, assurto a nemico numero uno di Washington e di molte cancellerie europee. Eppure, l’avvio della presidenza di Barack Obama indusse molti a credere in un riavvicinamento tra i due paesi.
Da Bush a Obama
La storica stretta di mano del 2009 fra l’inquilino della Casa Bianca e Hugo Chávez sembrò annunciare la fine dell’intransigenza statunitense nei confronti di Caracas nonché l’abbandono dell’unilateralismo dell’amministrazione di George W. Bush. Quest’ultima condotta aveva contribuito ad allontanare la maggioranza delle nazioni del continente dagli Stati Uniti. Non a caso proprio in quel periodo numerose nazioni della regione avevano iniziato a potenziare le relazioni politiche ed economiche con realtà extra continentali come la Cina e la Federazione russa (e l’Unione europea).
Sempre in quella fase diversi paesi dell’area cercarono di condurre una politica estera ambiziosa, in particolare il Brasile dei Brics e il Venezuela promotore dell’Alba. Tuttavia, le speranze iniziali vennero presto deluse e anche i rapporti fra Stati Uniti e Venezuela, la cui “normalizzazione” rappresentava uno dei passaggi obbligati, insieme al recupero delle relazioni con Cuba, per riconquistare la fiducia dei vicini meridionali, ripresero a camminare nel solco precedente.
I legami fra Caracas e L’Avana, i rapporti sempre più stretti con Russia, Cina e Iran, le accuse al paese latinoamericano di sostenere il narcotraffico, azzerarono i piccoli passi in avanti fatti nel 2009, e Washington riprese a sostenere l’opposizione interna venezuelana, appoggio che sarebbe culminato nel mancato riconoscimento della vittoria di Nicolás Maduro alle presidenziali del 2013.
Con la scomparsa di Chávez, il nuovo esecutivo non sembrò capace di adattare il progetto bolivariano alla nuova fase economica, né di contrastare il fenomeno della corruzione, e neppure di rilanciare l’azione di governo alla luce della riorganizzazione delle forze di opposizione. Con la deriva autoritaria del governo e l’ingresso del Venezuela in una grave crisi economica, l’atteggiamento degli Stati Uniti si fece sempre più ostile.
Nel dicembre del 2014 il Congresso statunitense approvò la legge 113-278 Venezuela defense of human rights and civil society act, che dava la possibilità di imporre sanzioni mirate ai responsabili delle violazioni dei diritti umani in Venezuela.
La legge si sarebbe tradotta nell’ordine esecutivo del marzo 2015 che, partendo dal presupposto che la persecuzione delle opposizioni e le violazioni dei diritti umani praticate dall’esecutivo venezuelano rappresentavano «un’insolita e straordinaria minaccia alla sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti», prevedeva sanzioni nei confronti del paese latinoamericano, fra cui il blocco dei beni e delle proprietà dei membri del governo e di chiunque avesse agito contro il processo democratico, nonché il divieto per questi di entrare negli Stati Uniti.
L’amministrazione Trump
La linea di Obama è stata approfondita da Donald Trump, che ha riconosciuto l’auto-proclamatosi presidente Juan Guaidó, rotto le relazioni diplomatiche e chiuso l’ambasciata a Caracas.
Il segretariato generale dell’Osa si è fatto megafono della linea della Casa Bianca, invocando maggiori sanzioni, sostenendo Guaidó e richiamando l’attenzione sulla necessità di un cambio di regime.
Alla fine, Washington ha comminato ulteriori sanzioni e una serie di ordini esecutivi adottati fra 2017 e 2019 hanno, fra le varie cose: vietato le transazioni di persone o imprese statunitensi con la compagnia petrolifera statale del Venezuela, proibito ogni operazione economica da parte di soggetti presenti negli Stati Uniti che avessero a che fare con qualsiasi tipo di valuta digitale creata dal governo di Caracas, reso illegali operazioni relative a qualsiasi tipo di debito dello Stato del Venezuela e la partecipazione in attività economiche di entità in cui il governo latinoamericano avesse una partecipazione pari o superiore al 50 per cento, la sospensione delle transazioni di aziende operanti nel settore aurifero venezuelano e in qualsiasi altro campo individuato dal segretario del Tesoro, il blocco di tutte le proprietà e di tutti gli interessi del governo del Venezuela negli Stati Uniti.
I riflessi del conflitto
Alcuni effetti di questo approccio sul piano politico-diplomatico sono emersi in occasione dell’attuale guerra in Ucraina. All’inizio del conflitto, il presidente Maduro ha espresso il «forte appoggio» del Venezuela alla Russia, condannando l’operato nell’area degli Stati Uniti e della Nato. A causa del mancato pagamento delle quote, il Venezuela non ha preso parte alle due votazioni dell’assemblea generale dell’Onu, quella sulle “Conseguenze umanitarie dell’aggressione contro l’Ucraina” e quella che ha condotto alla sospensione della Russia dal Consiglio diritti umani.
Tuttavia, è lecito supporre che se avesse partecipato, si sarebbe espresso contrariamente, o astenendosi. Uno degli effetti delle sanzioni di questi anni è, infatti, stato quello di favorire l’ulteriore avvicinamento fra Venezuela e Russia. Il paese latinoamericano, anche per via di una visione simile dell’ordine internazionale, si è affermato come l’interlocutore privilegiato di Mosca sia in ambito politico e strategico che nel comparto militare ed energetico nell’area.
Le entrate derivanti dalla vendita del petrolio hanno costituito il pilastro fondamentale della cosiddetta “rivoluzione bolivariana”. Esse sono risultate determinanti non soltanto per la realizzazione di tutti quei programmi sociali finalizzati a ridurre la povertà, a combattere la disoccupazione e a redistribuire la ricchezza nel paese, ma anche per finanziarie la maggioranza delle importazioni. E per sostenere una ambiziosa quanto effimera politica estera.
Fin dal 2012, il paese ha fatto i conti con le ripercussioni della crisi economica internazionale, con il calo dei prezzi delle materie prime, la riduzione degli investimenti e con il ritorno di un’inflazione altissima (68 per cento nel 2021). A tutto ciò è seguita una contrazione catastrofica del Pil (meno 25 per cento nel 2019), un calo notevole della ricchezza e la scarsità di generi di prima necessità e di medicinali.
In questo scenario, è indubbio che le sanzioni statunitensi abbiano avuto un impatto importante. Quelle del 2017 hanno avuto conseguenze soprattutto sulla produzione di petrolio (attualmente di appena 800mila barili al giorno contro i 2,3 milioni del 2016), a causa della difficoltà di ottenere crediti per finanziare (e ammodernare) il settore; quelle successive al 2018 hanno inciso sull’acquisto del greggio anche da parte di altre nazioni, fra cui la Cina, l’India e la Russia. Il danno prodotto sulle entrate provenienti dal petrolio – stimato in una perdita di almeno 11 miliardi di dollari l’anno – si è necessariamente ripercosso sull’intera situazione economica interna, aggravando la crisi umanitaria e contribuendo alla fuga dal paese di circa 6 milioni di venezuelani.
All’inizio del 2021, Alena Douhan, Special rapporteur on negative impact of unilateral coercive measures on human rights dell’Onu, ha presentato un rapporto in cui ha sottolineato che le sanzioni applicate nei confronti del Venezuela stanno avendo un impatto devastante, portando non solo a un’interruzione quasi completa dei servizi pubblici e dei programmi di assistenza sociale, ma investendo in maniera drammatica «tutte le categorie di diritti umani, compresi i diritti alla vita, al cibo, alla salute e allo sviluppo».
Nello stesso periodo, un rapporto del Government accountability office del Congresso statunitense è giunto a valutazioni simili, sottolineando nella sostanza che le sanzioni, insieme al calo del prezzo del petrolio e alla cattiva gestione da parte del governo venezuelano, hanno contribuito al deterioramento socioeconomico del Venezuela. Tuttavia, se le misure decise in questi ultimi anni da Washington hanno dissanguato il paese e isolato Maduro sul piano regionale e internazionale, non hanno raggiunto il principale obiettivo, vale a dire porre fine a un regime reputato dittatoriale, ristabilendo nel paese la democrazia. In breve, spazzare via quel blocco di potere che governa il Venezuela dal 1998.
Lo scorso marzo, dopo molti anni, una delegazione statunitense si è recata in visita a Caracas. Il Venezuela rappresenta una delle principali riserve di idrocarburi al mondo. È difficile non pensare che la mossa diplomatica non sia legata all’embargo al petrolio e al gas russo, nonostante il minimo impatto di tale misura per gli Stati Uniti.
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