Tutti i tentativi di trasformare (o snaturare) i social network già esistenti si sono sempre rivelati un flop, perché questa volta dovrebbe andare diversamente?
Sono ormai anni che i colossi tecnologici della Silicon valley inseguono un nuovo, ennesimo, sacro graal. È la cosiddetta “superapp”: un’unica piattaforma dotata di una vastità di funzioni diverse, in grado di riunire tutti i servizi a cui gli utenti occidentali hanno accesso tramite le decine di applicazioni che popolano i nostri smartphone.
A ispirare le varie società che, come vedremo, hanno nel tempo ventilato la creazione di uno strumento del genere è ovviamente WeChat: l’app di messaggistica della cinese Tencent, evoluta negli anni in una piattaforma che permette anche di inviare denaro, pagare il ristorante, fare acquisti, prenotare il cinema o il taxi, saldare le bollette, lasciare biglietti da visita e tantissimo altro ancora.
WeChat è così diventata l’unica porta d’accesso ai servizi online di cui hanno bisogno i suoi 1,3 miliardi di utenti (concentrati soprattutto in Cina), consentendo a Tencent di raccogliere in un solo luogo una tale quantità di dati da conoscere ogni aspetto della loro vita digitale. Viste le immense potenzialità, era inevitabile che anche nel nostro emisfero si cercasse di dare vita a un WeChat occidentale, dotato delle funzionalità oggi distribuite tra WhatsApp, PayPal, Uber, Glovo, Amazon e tutte le altre.
Il primo a valutare questa possibilità è stato Mark Zuckerberg, che in un post fiume del 6 marzo 2019 (in seguito più volte modificato) auspicava l’integrazione di tutte le app del suo impero: Facebook, Instagram, WhatsApp e Messenger (fornendole anche di uno strumento per l’invio di denaro). Circa due anni dopo, è stato il ceo di PayPal Dan Schulman a immaginare un ampliamento dell’app di pagamenti affinché permettesse anche di fare shopping, gestire budget, pianificare investimenti, pagare per vari servizi e altro ancora.
La rivoluzione di Musk
Dopo che Schulman e Zuckerberg hanno almeno in parte rinunciato ai loro progetti di superapp (in realtà, Meta sembra averli trasferiti nella complicatissima scommessa del metaverso), la sfida è stata recentemente raccolta da Elon Musk. Nell’ottobre 2022, quando l’acquisto di Twitter non era ancora stato completato, Musk già spiegava in un tweet di voler creare “X, la app per tutto”.
Adesso, con l’improvviso rebranding di Twitter proprio in X, l’ennesimo progetto di una superapp occidentale sembra aver mosso i primi passi. Al di là degli inevitabili scetticismi legati alla caoticità imprenditoriale che, soprattutto negli ultimi anni, ha contraddistinto Elon Musk, la domanda da porsi è un’altra: è davvero possibile trasformare e addirittura snaturare una piattaforma che per 17 anni ha svolto la sola funzione di social network? Perché gli utenti che qui cercano conversazioni e stimoli interessanti, o vogliono seguire in tempo reale ciò che avviene nel mondo, dovrebbero esserne attratti?
Se è vero che anche le innovazioni social di maggiore successo sono state inizialmente accolte con grande scetticismo (basti pensare al like o al newsfeed di Facebook), un discorso a parte vale invece per i tentativi del passato di ampliare grandemente le funzioni e lo scopo dei social network.
Il caso più illuminante è sempre quello di Facebook, che nel corso degli anni ha cercato di prendere il posto di svariate piattaforme integrando una marea di nuove mini-app: marketplace per contrastare eBay, Facebook Dating per fare concorrenza a Tinder e addirittura Watch, inizialmente studiato per entrare in competizione con YouTube, Netflix e gli altri servizi di streaming.
Tutti gli errori del passato
Inutile dire che nessuna di queste novità ha avuto il successo sperato. Anzi, diversificando eccessivamente l’offerta e allontanandosi troppo dalla sua funzione originale, Facebook potrebbe aver accelerato il suo ormai accertato declino. Da un certo punto di vista, Facebook sembra aver ripercorso gli stessi errori del social network che, proprio a causa di essi, era riuscito a spodestare nel 2008: il pionieristico MySpace.
Nato nel 2003, MySpace aveva raggiunto il successo grazie ad alcune tradizionali funzioni social e perché permetteva di seguire i gruppi e gli artisti musicali emergenti che qui pubblicavano e promuovevano le proprie canzoni.
Nel tempo, però, i continui redesign dell’intefaccia – volti a rendere i nostri profili sempre più personalizzabili tramite video, fotografie, caroselli, immagini e altro ancora – avevano reso l’esperienza di questo social troppo ricca e dispersiva (e il suo caricamento troppo lento), favorendo l’ascesa del più immediato e leggero Facebook.
Anche i tentativi più recenti, e meno radicali, di cambiare per tenere il passo coi tempi hanno raramente dato i risultati sperati. È il caso della cosiddetta “tiktokizzazione di Instagram”, con cui, nella speranza di replicare il successo delle Stories (copiate da Snapchat per arginarne l’ascesa), si è cercato di far digerire agli utenti l’improvvisa trasformazione del social fotografico in un clone di TikTok, in cui i profili che seguiamo e i contenuti che ci interessano vengono spodestati da una marea di video selezionati esclusivamente dall’algoritmo.
Perché dare per scontato che gli utilizzatori di Instagram siano disposti a subire una trasformazione del genere, soprattutto quando l’originale è a disposizione di chiunque sia interessato? E infatti l’esperimento è stato interrotto – o almeno rallentato – in seguito alla ribellione degli utenti; mentre alcune analisi hanno mostrato come i Reel di Instagram (ovvero i video in stile TikTok) abbiano un tasso di engagement (visualizzazioni, like, commenti) bassissimo.
Il rischio boomerang
Guardando al passato, la lezione sembra abbastanza chiara: introdurre novità e innovazioni mirate (come il già citato like di Facebook o il retweet di Twitter) permette a un social di evolvere e di crescere sotto vari punti di vista. Al contrario, trasformare il proprio social e ampliarne le funzioni per inseguire i trend del momento (si possono citare anche i fallimentare tentativi sempre di Twitter e Facebook di introdurre le newsletter per competere con Substack) si rivela facilmente un boomerang.
Il caso di X/Twitter è ancora più radicale. Al di là degli ostacoli economici, infrastrutturali e legali posti dalla trasformazione di un social network relativamente piccolo in una superapp in grado (per usare le parole della ceo Linda Yaccarino) “di fare tutto”, è anche difficile capire perché sia necessario stravolgere Twitter dalle fondamenta invece di creare una app nuova di zecca. Come ha scritto Matt Levine su Bloomberg, «se Musk voleva un servizio interamente diverso da Twitter avrebbe potuto costruirselo. Di sicuro gli sarebbe costato meno dei 44 miliardi [spesi per acquistarlo]».
Più che aver compiuto un passo verso la prossima evoluzione di Twitter, Musk sembra star sistematicamente facendo a pezzi un social che, tra l’altro, aveva proprio nel suo notissimo brand il valore principale. E se per assurdo fosse proprio questo il vero obiettivo? Vista la fama da “troll più potente del mondo”, non si può nemmeno escludere che le cose stiano effettivamente così.
© Riproduzione riservata