- La promessa della sharing economy si è trasformata in una realtà fatta di condizioni di lavoro estremamente precarie e prive di qualunque tutela
- Un modello diverso è quello offerto dalle cooperative di piattaforma, i cui introiti vengono divisi tra i lavoratori iscritti che decidono anche la governance della società
- Tra blockchain e finanziamenti pubblici, nel mondo sono presenti oltre 500 di queste cooperative, ma gli ostacoli alla loro diffusione sono parecchi
Il 2022 non è stato per niente amico delle piattaforme della gig economy, quelle cioè che mettono in contatto lavoratori (teoricamente) autonomi con utenti che hanno bisogno dei loro servizi. Da Uber a Deliveroo, da Airbnb a UpWork (utilizzato da traduttori, copywriter e altri per trovare commissioni): il settore non è stato solo colpito dai crolli in borsa che hanno caratterizzato tutto il mondo digitale – e che sono arrivati fino al -72 per cento in un anno di UpWork – ma sta fronteggiando rischi esistenziali.
Tra inflazione, instabilità e aumento dei tassi d’interesse, gli investitori che fino a poco fa erano disposti a riversare enormi quantità di denaro su società spesso in perdita adesso pretendono invece risultati. E così, i prezzi di Uber sono aumentati del 92 per cento tra il 2018 e il 2021, i costi e le commissioni per la consegna di cibo a domicilio continuano a crescere e alcune realtà particolarmente aggressive come Gorillas – piattaforma che permette di ricevere la spesa a casa in pochi minuti – si sono ritrovate a chiudere i battenti in alcuni grandi mercati (tra cui l’Italia).
C’è poi l’accesa questione delle condizioni di lavoro. Col tempo è diventato sempre più chiaro come molte di queste aziende – nate con la promessa di liberare i lavoratori dal giogo dell’orario fisso – si limitino invece a scaricare su di essi il rischio d’impresa, assoldandoli a tempo pieno, ma pagandoli a consegna e senza alcuna tutela, assicurazione o garanzia di introiti minimi (alcune realtà, come JustEat, hanno meritoriamente deciso di regolarizzare la situazione dei driver).
Le nuove cooperative
È anche per rispondere a questo tipo di problemi che già da qualche anno stanno (faticosamente) sorgendo le cooperative di piattaforma, che applicano al mondo digitale le logiche mutualistiche: «Non c’è proprio nulla di inerente alla tecnologia delle piattaforme che renda difficile amministrarle senza dover dirottare la maggior parte dei profitti agli azionisti», si legge sul New Statesman. «Il danno sociale da esse provocato è interamente da attribuire alla loro implacabile ricerca di profitti illimitati».
Perché allora non dare vita a piattaforme digitali in tutto e per tutto simili a Uber, Deliveroo o UpWork, ma gestite tramite un meccanismo cooperativo, che rende soci i lavoratori e quindi responsabili della gestione, dei meccanismi economici e del trattamento professionale?
Non è una novità: il concetto del “platform cooperativism” è stato infatti introdotto per la prima volta già nel 2014 da Trebor Scholz, attivista e docente alla New School di New York.
È però attorno al 2017 che il termine inizia a diffondersi, grazie anche all’attenzione – in quella fase altissima – attorno ai potenziali usi sociali della tecnologia della blockchain, che stava allora vivendo la sua prima fase di grande attenzione mediatica.
L’idea era chiara: sfruttando una delle più importanti applicazioni della blockchain – gli smart contract, contratti automatici che entrano in esecuzione non appena gli accordi tra le parti risultano soddisfatti – sarebbe stato possibile creare cooperative digitali in cui i proventi sarebbero stati automaticamente ripartiti in base agli accordi (semplificando enormemente il processo, soprattutto in caso di partecipazione molto numerosa) e in cui l’intera organizzazione sarebbe stata gestita in maniera completamente orizzontale, senza alcuna struttura gerarchica.
Sono gli stessi elementi che poi evolveranno nelle DAO (acronimo di decentralized autonomous organizations, realtà legate a un settore ricco di contraddizioni come quello del web3): organizzazioni che operano nel mondo digitale tramite la blockchain e che possono essere gestite in maniera cooperativa, condividendo proventi e gestione.
Gli esempi più noti sono progetti ancora in fase più o meno sperimentale, come il servizio cloud Filecoin (una sorta di Dropbox decentralizzato) o Coop Records, un clone di Spotify in versione cooperativa.
Le realtà decentralizzate legate al web3 si sono però attirate numerose critiche, legate soprattutto al prevalente elemento speculativo che le caratterizza (come tutto ciò che ha le criptovalute al suo centro) e al rischio che tutto il potere finisca in realtà in mano ai più grandi investitori, che hanno riversato in questo settore enormi quantità di denaro.
Concorrenza solidale
Le cooperative di piattaforma strettamente intese operano però al di fuori del mondo blockchain e fanno idealmente concorrenza proprio ai colossi della consegna di cibo a domicilio e non solo. «Il neologismo platform cooperativism nasce proprio come contro-narrazione alla degenerazione dell’idea originaria della sharing economy e con lo slogan ‘cloniamo il cuore di Uber e Airbnb e creiamo una cooperativa», spiega Francesca Martinelli, direttrice del Centro Studi Fondazione, a Pandora Rivista.
«Nel corso degli anni, questa prospettiva ha subito un’evoluzione e oggi possiamo dire che una piattaforma cooperativa è costituita da lavoratori, consumatori o enti che insieme decidono di fondare una cooperativa per avere la proprietà condivisa dei mezzi di produzione – in questo caso la piattaforma – e gestirla in modo democratico al servizio dei soci e delle socie della cooperativa e della comunità».
In sintesi estrema, il plusvalore (auspicabilmente) generato dalla cooperativa non finisce nelle tasche dei grandi investitori, ma viene redistribuito tra tutti i lavoratori che della cooperativa fanno parte.
Nonostante gli inizi difficili e i limiti intrinseci, oggi si contano 533 cooperative di piattaforma in 49 paesi del mondo attive nei settori più vari: consegne, agenzie fotografiche, energia, trasporti, cura degli anziani e altro ancora.
Da Fairbnb, l’alternativa equa a AirBnb, nata in Emilia Romagna nel 2016 e che oggi opera in 20 paesi, alla cooperativa newyorkese di pulizie Up&Go, fino alla variante etica di Uber chiamata Drivers Cooperative, una delle più grandi cooperative di piattaforma la cui applicazione (Co-Op Ride) può però contare su soltanto 40mila scaricamenti (Uber ha invece 90 milioni di clienti).
Come si può intuire anche da quest’ultima cifra, il settore delle piattaforme cooperative genera numeri che sono briciole rispetto a quelli dei colossi della gig economy. Per quale ragione questi servizi, anche se di pari qualità, non riescono a crescere?
«Essendo, a differenza delle piattaforme classiche, orientati al territorio e alle persone che lo vivono, i progetti sono difficilmente scalabili”, segnala ancora Francesca Martinelli. “Inoltre, le piattaforme cooperative, come tutte le cooperative, faticano ad accedere a finanziamenti e a ottenere investimenti, non essendo remunerati».
Limiti alla crescita
In generale, quindi, i problemi più pressanti sembrano essere due: finanziamenti e scalabilità. Come si superano? L’unica possibilità per competere – almeno su territori circoscritti – è poter contare sul supporto di amministrazioni regionali o comunali, a livello economico o attraverso politiche che le favoriscano rispetto ai colossi privati. Ci sono già degli esempi di questo tipo: il governo del Kerala ha per esempio da poco promesso di aiutare la nascita di 4mila piattaforme cooperative.
Tra gli esempi di amministrazioni virtuose spesso citati ci sono anche l’Emilia Romagna e la città di Bologna, che mantengono viva la loro tradizione di sostegno alle cooperative agendo come incubatori di alternative etiche alle piattaforme e finanziando progetti che possono essere utili alla comunità.
Tra questi c’è per esempio Consegne Etiche, servizio di consegne a domicilio che fornisce una paga fissa di nove euro all’ora ai rider (molto superiore alle media delle consegne tradizionali) e riceve finanziamenti annuali europei per servire le zone più difficili di Bologna o consegnare libri a chi non è in grado di recarsi in biblioteca.
Per il momento, queste realtà cooperative sono nella maggior parte dei casi destinate a una piccola nicchia di utenti molto attenti alle tematiche sociali e ambientali o sono studiate per servire il territorio con modalità che non sarebbero convenienti per una piattaforma tradizionale.
Sulla carta (come è già avvenuto in altri settori), nulla vieta però che le “platform coop” amplino grandemente i loro numeri e arrivino a competere con i colossi del settore. Magari approfittando dell’attuale vulnerabilità di quest’ultimi, dei prezzi in aumento e soprattutto dell’attenzione crescente nei confronti delle condizioni dei lavoratori.
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