Fino a qualche anno fa, il compito di Google era uno solo: indirizzare gli utenti verso i contenuti web che – secondo l’algoritmo che regola il funzionamento del motore di ricerca – hanno le migliori probabilità di rispondere alle loro richieste.

Da un certo punto di vista, Google era uno strumento altruista: al netto delle pubblicità e dei risultati sponsorizzati, il suo lavoro non solo facilitava la vita degli utenti (che altrimenti si sarebbero smarriti nel mare della rete), ma consentiva alle testate online di ricevere una parte consistente (se non dominante) del loro traffico.

Col tempo le cose hanno iniziato a cambiare, compiendo un balzo nel 2018 con l’ultima versione dei “featured snippets”. Attraverso queste anteprime, Google non si limita più a mostrare i classici link, ma fornisce in cima alla pagina un box contenente l’estratto più rilevante, per la nostra ricerca, di una pagina web.

Poche righe che in moltissime occasioni – risultati delle partite, testi delle canzoni, date di avvenimenti storici e altre informazioni brevi – sono sufficienti a soddisfare le richieste degli utenti, che non hanno quindi più bisogno di cliccare sul link riportato.

Una macchina delle risposte

Se per esempio cercate “a che velocità corre il ghepardo”, non avrete bisogno di cliccare sul primo link che compare (e che rimanda alla testata Focus.it) per ricevere l’informazione desiderata: sarà sufficiente leggere lo snippet, in cui viene riportato che la velocità massima del felino è di 112 chilometri orari.

Se invece cercate il testo di una qualsiasi canzone, questo vi verrà mostrato integralmente nell’anteprima, eliminando qualunque necessità di cliccare sul link del sito che quel contenuto ha originariamente fornito.

Come dichiarato al tempo da parecchi esperti, con questa cruciale modifica Google aveva (in parte) smesso di essere un motore di ricerca per diventare sempre di più una “macchina delle risposte”. Che un’evoluzione di questo tipo abbia danneggiato le testate online (che, in misura diversa, producono tutte contenuti studiati apposta per essere trovati su Google) è inevitabile.

Quantificare con precisione il danno è però impossibile, visto che la crescita o il calo del traffico legato alla Seo (search engine optimization, l’ottimizzazione dei contenuti affinché conquistino il miglior posizionamento su Google) dipende da una miriade di fattori e rende impossibile isolarne uno solo.

O la Seo o la morte

Quel che invece è certo è che, nonostante i cambiamenti, Google ha continuato a essere un fondamentale vettore di traffico per tutti i più importanti siti web del mondo.

Anche un sito come il New York Times riceve – secondo i dati della società specializzata Semrush – circa il 25 per cento del suo traffico da Google. Percentuale che schizza al 65 per cento (e quasi al 90 aggiungendo tutti gli altri motori di ricerca) nel caso di siti come WikiHow, nati appositamente per offrire risposte alle domande che gli utenti pongono su Google (e lo stesso vale per il ben più autorevole Wikipedia).

Anche moltissime testate italiane puntano sulla Seo per conquistare traffico e quindi generare introiti tramite la pubblicità: dal sito di consigli tech di Salvatore Aranzulla a quelli che offrono ricette, consigli domestici, suggerimenti sui regali di Natale, risposte a curiosità di ogni tipo e altro ancora.

Si tratta di realtà spesso professionali e che macinano utili anche importanti (il sito di Aranzulla, nel 2021, ha fatturato 3,8 milioni di euro), ma il cui traffico rischia di essere decimato dalla sempre più evidente volontà di Google di diventare l’unico sito di cui ha bisogno chi sta cercando informazioni.

Zero click

Le cose, infatti, si stanno ulteriormente complicando. Nel maggio scorso, Alphabet (la casa madre di Google) ha presentato la versione beta di Search Generative Experience (d’ora in poi Sge). In maniera simile a ChatGpt e agli altri Large Language Model (sistemi basati su machine learning in grado di generare testi di ogni tipo), il motore di ricerca sperimentale di Google è in grado di riformulare la miriade di informazioni presenti nei siti web a cui attinge per produrre testi coerenti con le nostre ricerche.

Per esempio, se cerchiamo informazioni sui migliori computer economici, Sge sfrutta il materiale proveniente da vari siti specializzati per generare integralmente il risultato (e lo stesso vale per biografie di personaggi storici, informazioni economiche, recensioni di videogiochi e curiosità di ogni tipo), limitandosi a mostrare in un angolo alcuni dei link utilizzati per crearlo.

Tutto ciò, inevitabilmente, significa che la stragrande maggioranza degli utenti non cliccherà più su nessun link, limitandosi a consultare il testo generato dal motore di ricerca «L’obiettivo di Google è fornire una ricerca “zero-click”, che sfrutta le informazioni delle testate e degli autori che impiegano tempo e fatica per creare contenuti senza offrire loro nessun beneficio», ha spiegato a Cnbc il Ceo di TechRaptor, Rutledge Dauguette.

Quando gli attuali limiti di attendibilità delle risposte fornite saranno superati, il percorso iniziato con le anteprime giungerà a compimento: Google non reindirizzerà più gli utenti su altri siti, ma diventerà l’unico portale che abbiamo bisogno di consultare. In questo modo, però, Google rischia di dare vita a un circolo vizioso. Anzi, a più di un circolo vizioso.

Una piccola Internet

Andiamo con ordine. Come affermato da Dauguette, tutti gli articoli che Sge rimastica (come si dice in gergo) per fornire i suoi contenuti testuali sono stati originariamente prodotti da testate online, spesso allo scopo di ricevere traffico proprio da Google.

Se i motori di ricerca iniziano a cannibalizzare il lavoro altrui per produrre in toto i testi mostrati agli utenti, le testate online utilizzate come fonti saranno di conseguenza sempre meno motivate a creare nuovi contenuti.

Google è consapevole di tutto ciò, tanto da affermare, tramite un portavoce, che continuerà a «dare la priorità ad approcci che generano traffico di valore per un’ampia gamma di creatori, supportando la buona salute dell’open web».

Il problema però, come ha scritto Justin Pot sull’Atlantic, è che «la stessa premessa di SGE implica necessariamente un maggior numero di contenuti presenti su Google e un minor volume di traffico inviato ai siti web. [Tutto ciò] potrebbe condurci a una versione più piccola di Internet, con meno siti, meno contenuti e di conseguenza una peggiore esperienza per tutti».

Circoli viziosi

E così, arriviamo al primo circolo vizioso: se meno siti pubblicheranno contenuti perché economicamente non più incentivati a farlo, come farà Sge a trovare nuovo materiale utile a generare le sue risposte? Come ventilato da Barry Diller, presidente del gruppo editoriale Iac, le testate online potrebbero inoltre reagire impedendo a Google di raccogliere dal web il loro materiale a meno che non paghi un equo compenso.

Tutto ciò, però, potrebbe avvantaggiare ulteriormente i contenuti creati da chi non ha interesse a ricevere traffico, ma soltanto ad aumentare la propria visibilità online.

È il caso degli articoli scritti dai cosiddetti “content writer”, redattori impiegati dalle aziende per promuovere la loro attività. La maggior parte dei contenuti che ha titoli come “le migliori alternative ad Airbnb” vengono infatti scritti dai concorrenti della più nota piattaforma di affitti a breve termine, sfruttando le regole della Seo a fini promozionali (e quindi senza badare troppo alla qualità e alla veridicità delle informazioni).

Non solo, già oggi strumenti come ChatGpt vengono sempre più spesso utilizzati per produrre rapidamente un’enorme quantità di materiale di questo tipo, portando a un ulteriore circolo vizioso: i contenuti editoriali scritti da un’intelligenza artificiale vengono utilizzati da un’altra intelligenza artificiale (come Sge) per produrre ulteriori testi, che a loro volta circolano per il web diventando la fonte di nuovi articoli artificialmente generati.

Una costante cannibalizzazione che rischia di invadere la rete con contenuti sempre più omogenei, sempre meno attendibili e dalla qualità sempre più dubbia. È davvero questo il futuro del web?

© Riproduzione riservata