- Il “Facebook down” avrebbe potuto essere evitato. Un errore può capitare, ma la portata di questo black out dipende dalla scelta accentratrice di Zuckerberg.
- Per poter fare profitti sui nostri dati, ha concepito un’infrastruttura il più possibile centralizzata e quindi interdipendente. Perciò da un iniziale problema di dominio ha finito per saltare; persino il badge dei dipendenti.
- E con Facebook sono saltati WhatsApp e Instagram, le sue acquisizioni. Il punto è tecnologico ma anche politico, e riguarda le smanie monopolistiche di Zuckerberg. Da Snowden a Ocasio-Cortez, c’è chi trae dal black out social una lezione: bisogna infrangere i monopoli.
Il “Facebook down” avrebbe potuto essere evitato. Un errore può capitare, certo. Ma se per ben sei ore sono saltati non soltanto Facebook, ma pure WhatsApp e Instagram, e se persino i dipendenti di Mark Zuckerberg sono rimasti materialmente chiusi fuori dall’azienda, non è per un incidente, o quantomeno non solo. All’origine di tutto questo c’è una scelta sistematica, e tutto ciò che ne consegue. La scelta è quella di Zuckerberg di accentrare tutto nelle sue mani, in una unica infrastruttura e sotto una sola azienda, visto che WhatsApp e Instagram sono ormai anche loro dentro la galassia di Facebook. Quanto alle conseguenze, il blackout social, di una portata mai vista prima, ha tagliato fuori dalle comunicazioni «una enorme comunità di persone e aziende che dipendono da noi»; così le definisce la stessa Facebook.
Lo “Zuckerberg down”
Il titolo è crollato di quasi il 5 per cento, e i miliardi persi da Zuckerberg si aggiungono a una lunga lista di colpi accumulati in questa fase. Il capo di Facebook è bersagliato. Ieri la ex dipendente Frances Haugen ha testimoniato al Senato, ha definito «un disastro» le scelte fatte nell’azienda e ha accusato Zuckerberg di mettere il profitto sopra la salute e la sicurezza degli adolescenti che popolano le sue piattaforme.
Intanto nell’ambiente tech si è diffusa la notizia che i dati di un miliardo e mezzo di utenti Facebook vengono smerciati online; fosse vero, sarebbe la breccia più grande di sempre, ma la senatrice Marsha Blackburn dice che «la cosa va verificata, potrebbe essere un fake». Il “down” rimane il colpo più duro: è impresso nella memoria di tanti e costringe ad affrontare gli errori di Zuckerberg e di chi glieli ha consentiti.
La rete che diventa invisibile
La prima spiegazione del blackout arrivata da Facebook – su Twitter – è una non spiegazione. L’azienda anzi minimizza: alle sei e venti di lunedì pomeriggio, comunica che «siamo consapevoli, che alcune persone stanno avendo qualche problema ad accedere alle nostre app e ai nostri prodotti. Stiamo lavorando per ripristinare al più presto la normalità, ci scusiamo per i disagi». «Alcune persone» sono tante nel mondo, e «il più presto» diventa mezzanotte. Per i tempi istantanei dei social, vuol dire un’eternità. Come mai?
L’azienda stessa ha confermato ieri che il down non è stato causato da un attacco. L’origine sta in una «modifica della configurazione errata da parte nostra». Come hanno spiegato Celso Martinho e Tom Strickx, esperti tech, «internet è davvero una rete di reti, ed è tenuta insieme dal cosiddetto Border gateway protocol (Bgp). Quest’ultimo permette a un network, come Facebook, di segnalare la sua presenza agli altri network che compongono internet». Immaginate una rete composta da tanti nodi, e poi che per una impasse tecnica il nodo di Facebook non sia più capace di parlare la stessa lingua, di comunicare con gli altri. Succede quando i server “dns” – quel che ci consente di connetterci ai siti con il nome di un dominio invece che con complicati indirizzi – vanno in panne.
Nel caso del Facebook down, però, non è andato solo in tilt qualcosa: da un iniziale problema di dominio ha finito per saltare tutto, pure i sistemi di comunicazione interni all’azienda stessa. Persino il badge dei dipendenti, che – mentre noi rimanevamo bloccati fuori dai social – restavano chiusi fuori dall’ufficio. Ore dopo i primi segnali di tilt, un manipolo di esperti di sicurezza spedito da Facebook al data center di Santa Clara stava ancora cercando di individuare da dove fosse partito il problema.
Il centro del disastro
Come abbia potuto la crisi estendersi così, lo riassume bene Alex Hern, che è esperto di tecnologia: «Facebook fa funzionare tutto attraverso Facebook». Conclusione analoga arriva da NetBlocks, che monitora la governance di internet. E che osserva: «Mentre la centralizzazione dà a Facebook una visione unificata delle abitudini di consumo degli utenti, allo stesso tempo rende i servizi interamente vulnerabili anche di fronte a un singolo e puntuale errore». Per poter fare profitti sui nostri dati, Zuckerberg invece di dividere in comparti ha concepito un’infrastruttura il più possibile centralizzata e quindi interdipendente. Interdipendente pure di fronte all’errore e al fallimento. Chi si batte per i diritti digitali, come Evan Greer che dirige Fight for the Future, ribadisce oggi che «la ipercentralizzazione dell’infrastruttura di internet è una pessima idea». L’infrastruttura in questo caso non è solo questione di tecnologia; è anche politica.
Concentrazione di potere
Il nodo politico del “Facebook down” sta proprio qui: nella possibilità per un unico imperatore dei social network, Mark Zuckerberg, di controllare non soltanto Facebook, ma pure WhatsApp, Instagram… Tre miliardi e mezzo di persone li usano, o come dice l’azienda, ne «dipendono». La questione, e pure la responsabilità, è pure politica, e a sollevarla è ad esempio la congresswoman statunitense Alexandria Ocasio-Cortez: «Ricordatevi – dice – che WhatsApp non è stato creato da Facebook. Era indipendente e aveva successo. Facebook ne ha avuto paura e se l’è comprata». Se il comportamento monopolistico di Facebook, prosegue la deputata, fosse stato tenuto sotto controllo e frenato quando era il momento, «i continenti di persone che dipendono da WhatsApp o Instagram per le loro comunicazioni non avrebbero patito il down». In conclusione, dice Ocasio-Cortez: «Break them up!». Rompete il monopolio, spezzate l’impero. Della stessa idea è Edward Snowden, il whistleblower che denunciò la sorveglianza di massa: «Il fatto che i tre social siano andati in tilt insieme è un esempio tangibile del perché infrangere un monopolio non sia poi una cattiva idea...».
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