Da decenni le Big Tech e la tecnofinanza plasmano e sfruttano lo spazio economico-politico globale. Le sovranità statali l’hanno subito come se internet piombasse dallo spazio e non da fili, onde, fibre vincolate a territori, spazi politici, giurisdizioni. Ma ora le tre Regine antitrust del nord Atlantico (Lina Khan per gli Usa, Sarah Cardell per il Regno Unito, e Margrethe Vestager per la Ue) hanno firmato un patto contro i rischi di monopolio dell’Ia prima che sia troppo tardi. A quanto pare pesa la lezione dell’esperienza con le Big Tech, che, agendo di slalom fra le giurisdizioni nazionali, hanno creato interessi e abitudini di fatto inattaccabili.

Il patto vede quattro pericoli: 1) la limitazione degli input chiave per lo sviluppo delle tecnologie di Ia; 2) l’uso totalitario del potere di mercato per assoggettare ecosistemi adiacenti; 3) lo sfruttamento del patrimonio di dati e degli effetti di rete per aumentare le barriere all’ingresso e danneggiare la concorrenza; 4) l’esercizio di monopsonio (monopolio dell’acquirente) verso i creatori di contenuto. Ovviamente le aziende cui il patto si rivolge sono pur sempre le Big Tech, perché sono queste che dominando il web hanno anche i dati, i chip e i capitali richiesti dalla partita dell’intelligenza artificiale.

Al di là del tema specifico, non è da escludere che il patto delle Regine segni una svolta vera nei confronti dei giganti della rete. Almeno così parrebbe a dar peso alla coincidenza che, pur a seguito di un’istruttoria avviata nel 2022, nella stessa settimana la Ue ha prospettato una multa (di gran lunga la più alta mai irrogata) da 10 a 13,4 miliardi (10 per cento del fatturato) a carico di Meta per aver mischiato – con ingiusto vantaggio rispetto ai servizi concorrenti – il suo servizio annunci (Market Place) alla piattaforma principale (Facebook, Messenger, Instagram, WhatsApp e Quest). Certo, si potrebbe dire che l’Europa riesca ad agire contro i monopoli altrui non avendone di propri. Ma il contesto fa pensare che Usa e Uk in questo caso le coprano le spalle e si pongano in scia. È molto e va sottolineato, ma, proprio riguardo a Meta, sarebbe necessario, al di là delle logiche antitrust, mettere in discussione il tipo di servizio che da vent’anni ci propina.

Il metodo META

Per comprendere il metodo Meta è necessario riandare al 1996, quando Zuckerberg a Facebook neanche ci pensava. In quell’anno gli Usa di Clinton varano il Paragrafo 230 del Decency Act a garanzia dei provider, gli intermediari tecnici, contro azioni di responsabilità per i contenuti messi in rete da Tizio e Caio. Senonché il provider vive di ricavi possibili solo in due modi: a) vendere abbonamenti a Tizio e Caio per consegnarli l’accesso alla rete; b) infilare pubblicità nell’attività di Tizio e Caio. La prima soluzione ha avuto vita breve, la seconda ha fatto la fortuna delle Big Tech a spese di stampa e tv tradizionale. Gli interpreti più coerenti di questa vicenda sono stati Google e Facebook, ma con una differenza sostanziale. Il motore di ricerca è rincorso da utenti ansiosi di link a informazioni, e le teste rivendibili alla pubblicità s’accumulano da sole.

Meta invece deve stimolare la socializzazione giacché, pur rispondendo a un bisogno autentico, tende col tempo a farsi fiacca. Da cui i rimedi: il like in forma di pollice alzato (quello verso era interdetto) per interagire con continuità, senso di protagonismo e sforzo minimo (in sostanza un passatempo); il news feed, ovvero la intromissione di notizie, e trend che offrono spunti di chiacchiera anche al più atono e ottuso degli account.

Qui spunta il primo problema: può mai definirsi intermediario tecnico, protetto dalla norma clintoniana, chi per mestiere seleziona argomenti e propone temi all’attenzione degli utenti? Ovviamente no, ma finora le autorità Usa hanno lasciato correre lasciando spazio al diversivo della “moderazione” a mezzo di guardiani e algoritmo, con tanto di filosofi del banale impegnati a fissare il bene, il male e i criteri di censura.

La catastrofe dell’anonimato

Il problema sostanziale tuttavia è ben altro e sta nella bulimia d’accumulo di account senza alcun effettivo accertamento capace di distinguere fra identità reali, impostori o robot. La conseguenza è che i social (a partire da quelli di Meta) sono stracolmi di account che negano la propria identità all’interlocutore. Un esito terribile per un medium che nasce per connettere persone.

I contatti social, leggiamo, sono al 50 per cento di robot (travestiti da persone) che imperversano sugli altri e si spintonano fra loro, al 45 per cento di utenti veri e dichiarati, al 5 per cento di anonimi guardoni, bulli, stalker e ribelli prudenti (ma ingenui perché l’anonimato in internet non regge a chi possiede i mezzi per scassinarlo). Ed è ovvio che l’infodemia che ormai tutti lamentano deriva proprio dalla mancata trasparenza che stronca la vergogna per il giudizio altrui.

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