I social media sono già in frantumi, ma noi ci accontentiamo di vivere a contatto con gli zombie perché non abbiamo possiamo farne a meno. È un effetto del monopolio nella tecnologia e del fatto che non esistano idee diverse da quelle proposte dai grandi capitalisti. Anche sull’intelligenza artificiale
“It’s ok to mourn the death of social media” (va bene piangere la morte dei social media) è il titolo di un articolo uscito su Business Insider nel 2023. I social hanno una data di scadenza? Sono già in frantumi? Come le piattaforme digitali che ogni giorno utilizziamo letteralmente si riducono a un cumulo di rifiuti e soccombono perdendo smalto e credibilità?
Il giornalista, scrittore di fantascienza e attivista digitale canadese Cory Doctorow ha coniato un neologismo per indicare questo deterioramento progressivo degli spazi digitali, “enshittification”, letteralmente riduzione in merda, in un articolo uscito su Wired, “The Enshittification of Tiktok”.
Secondo Doctorow le infiltrazioni capitalistiche rompono il patto di fiducia tra utenti e piattaforme web e si insinuano in modo capillare. Un ciclo continuo senza via d’uscita che erode la linfa vitale e il valore dei nostri feed, agonia che si riproduce identica per ogni piattaforma web, in un triangolo che ha come apici utenti e profitto. L’asse si muove freneticamente tra questi due poli e finisce con il ripiegarsi su sé stesso: «Le piattaforme, tutte, Google, Facebook, Tiktok, Instagram alla fine fanno solo ciò che vogliono tradendo sia utenti che clienti» spiega Cory Doctorow, intervistato durante la Biennale Tecnologia di Torino.
Cosa significa il neologismo “enshittification” e quali sono le fasi della rovina?
Scrivo dei problemi delle piattaforme digitali da decenni. Piattaforme diverse si deteriorano in tempi e in modi diversi ma quando i tempi di consunzione si sono contratti è diventato evidente che qualcosa di analogo stava accadendo simultaneamente a tutte le piattaforme.
Enshittification è solo un’etichetta ma il fenomeno è reale. Deriva da shit, progressivamente ogni piattaforma diventa merda, è come una malattia. C’è la sintomatologia, ciò che si evince dall’esterno, e ciò che accade all’interno. E ancora l’epidemiologia, come la patologia si diffonde.
È evidente: le piattaforme all’inizio sono benevole con gli utenti e apportano valore. Poi le cose peggiorano per noi utenti ma migliorano per clienti e inserzionisti. Poi peggiora ancora la situazione anche per gli inserzionisti. Alla fine non c’è più nulla di buono, nonostante noi continuiamo ad accedervi, le piattaforme si deteriorano sempre più. È questa sintomatologia che abbiamo constatato con eBay, Amazon, Uber, Facebook, Apple, Google. Tutte le piattaforme passano attraverso questo schema.
Rimangono vive solo in apparenza. Come muoiono perdendo valore?
Sono ancora vive, usiamo Google, usiamo Facebook, ma in realtà sono agonizzanti. Sono zombie. Le piattaforme digitali rispetto al mercato in real life hanno il “vantaggio” di avere gli schermi come facciata. Chiunque abbia un negozio sa bene che non può cambiare i prezzi, far oscillare i salari, alterare le offerte da un momento all’altro. Non si possono riorganizzare gli scaffali ogni volta che qualcuno entra.
Ogni acquirente di piattaforme come Amazon, al contrario, vede quello che la piattaforma vuole. E così si finisce per cadere in una serie di trucchi molto semplici che vengono solo eseguiti molto rapidamente. Come un gioco di magia che tutti conoscono a memoria e riesce solo perché viene eseguito dal prestigiatore di turno in pochi secondi.
La reiterazione, continuare ad abitare luoghi digitali che forse vorremmo lasciare ha a che vedere con il monopolio?
Certo. Immaginiamo un mondo senza Google, cosa faremmo svegliandoci il giorno dopo? Cercheremmo subito un’alternativa, un’altra scelta. Solo così potremmo davvero renderci conto, essere consapevoli. Solo quando Altavista ha lasciato il posto a Google abbiamo capito che Altavista era pessimo. Se andavo su Altavista e cercavo qualcosa ottenevo solo spam. Su Google ottenevo invece i risultati attesi, gli utenti vogliono avere altre scelte.
Dobbiamo porre fine al monopolio delle piattaforme digitali, usiamo Facebook o Instagram non perché ci piaccia Facebook ma perché ci piacciono le persone che ci sono, i nostri amici, la nostra famiglia, i clienti, la community.
«Chi per primo parla di intelligenza artificiale paga da bere» ha scritto sul suo blog come regola ai party. Ovviamente è una critica ironica all’onnipresenza di dibattiti spesso infertili e ciechi sull’Ia…
Quando diciamo che l’intelligenza artificiale è una bolla e che sostituirà i lavoratori con spazzatura, tutto ciò è vero solo se il tuo capo lo crede e ti licenzia. Dobbiamo smettere di credere alle storie che le aziende tech raccontano sull’intelligenza artificiale e di ripeterle senza spirito critico.
Un accademico, professore di Science, Technology, and Society al Virginia Tech, Lee Vinsel, la chiama “tech hype”. Vinsel critica l’hype dicendo che ci ha distratto da tanti problemi di natura capitalistica dei nostri tempi.
Come ritrovare il focus?
Dobbiamo guardare la realtà. Se diciamo che l’intelligenza artificiale permetterà a tutte le aziende di derubarci licenziando i lavoratori, c’è una banale risposta a questo. Chiediamoci invece: non è vero ma se lo fosse come lo impediremmo? Abbiamo bisogno di un salario minimo universale? Non c’è bisogno di analisi complesse.
Dobbiamo concentrare le nostre critiche sul modo in cui il capitalismo e le aziende tech ci danneggiano, non sulla storia che ci raccontano. C’è uno storytelling illusorio che avvolge le big tech. Non ascoltate quello che vi raccontano. Non ascoltate quello che vi dicono di fare. Guardate cosa stanno facendo davvero.
È davvero possibile trasformare internet in una piazza democratica?
Sì. Dovremmo costruire un Internet più democratico e riprenderci il nostro potere, come utenti e come cittadini. Ciò che ha corroso la rete è stato il crollo della concorrenza, l’assenza di regolamentazioni adeguate, il crollo del potere dei lavoratori. Possiamo agire ripristinando la concorrenza, ripristinando le regolamentazioni e il potere dei lavoratori. È questa la direzione che stiamo prendendo.
Torniamo per un attimo all’era dei tecno-ottimisti, com’era internet a fine anni Novanta secondo lei? Libero da interferenze commerciali e puro? E ora?
Credo che la “Shit-internet” che abbiamo ora sia in una fase di transizione tra la vecchia e buona rete e quella che verrà. C’è chi che dice che il vecchio Internet buono era in realtà un Internet corroso, solo che non ce ne siamo resi conto. Io penso che la vecchia Internet fosse davvero benevola. Solo che non era, come dice William Gibson, democratica. E dobbiamo ripartire da una rete democratica. Questo è il tema.
Le big tech vi diranno che l’unica rete possibile è quella del monopolio. Sono due lati fusi insieme, è un trucco che i neoliberisti usano da sempre. Margaret Thatcher diceva: «Non c’è alternativa». Al capitalismo, non c’è alternativa. E ciò che intendeva dire credo fosse: «Smettetela di provare a pensare a un’alternativa».
A proposito di alternative, Lei è autore di climate fiction. In che modo la narrativa contribuisce a raccontare il reale?
La narrativa simula un’esperienza, ci aiuta a capire come sarebbe un mondo migliore o cosa accadrebbe se il mondo peggiorasse ancora. La narrativa può sollevare un dibattito urgente che altrimenti emergerebbe solo quando è troppo tardi per risolvere il problema. È molto facile percepire il cambiamento climatico quando Venezia sprofonda. Sarebbe utile capire e intercettare l’emergenza in tempo per salvare Venezia. A questo serve scrivere.
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