- Gli stessi adolescenti hanno indicato come Instagram ponga loro problemi di autostima e non solo, rafforzando sospetti che circolano già da tempo.
- Le ricerche scientifiche, però, mostrano un quadro molto più sfaccettato, in cui i social network possono anche avere effetti benefici.
- Per evitare di sottovalutare i pericoli di Instagram e degli altri social network, o per evitare che diventino un facile capro espiatorio, abbiamo bisogno di studi di più ampio respiro.
Un primo segnale di allarme era arrivato già nel 2017, in seguito a uno studio condotto dalla britannica Royal society for public health sull’utilizzo dei social network tra i giovanissimi e gli effetti sulla loro salute mentale.
Ai partecipanti era stato chiesto di indicare – attraverso vari parametri – quali piattaforme tra Facebook, YouTube, Twitter e Instagram avessero un’influenza negativa sulla loro vita.
Instagram sembrava quasi un intruso: che cosa ci faceva tra i social network accusati di mettere a rischio la democrazia (come Facebook), di essere tra i responsabili della crescente polarizzazione politica (come Twitter) e di diffondere a macchia d’olio le più pericolose teorie del complotto (come YouTube)?
Al confronto, un social network utilizzato principalmente per condividere foto di viaggi o di feste e per seguire le celebrità preferite sembrava assolutamente innocuo.
Viste le premesse, i risultati dello studio della società britannica sono stati spiazzanti: i partecipanti al sondaggio hanno valutato Instagram come il peggiore in assoluto per la loro salute mentale, affibbiandogli punteggi molto negativi relativamente alla percezione di sé stessi, ma anche alla qualità del sonno e alla fomo (fear of missing out, la paura di perdersi qualcosa d’importante se si staccano gli occhi dallo smartphone).
Perché dei giudizi così negativi a un social network da sempre immune alle polemiche che regolarmente travolgono gli altri?
Trasformare le vite
La ragione – secondo sociologi come Jean Twenge, autrice di un celebre (e contestato) articolo per l’Atlantic – sarebbe nella capacità di Instagram di trasformare le vite degli adolescenti e dei più giovani in una sorta di infinito concorso di popolarità. Metriche come i follower o i like ricevuti ai post si trasformano in punteggi in grado di quantificare con una precisione spaventosa (o dare l’idea di farlo) il “successo” che si ha tra i propri amici.
Non solo: Instagram è diventato per molti una sorta di vetrina di finte vite patinate in cui siamo tutti costantemente in viaggio, partecipiamo a feste esclusive o prendiamo il sole su spiagge esotiche.
Una narrazione che rischia di aumentare il disagio di chi, banalmente, si trova invece sul divano a scrollare in solitudine sui social network.
Di tutti questi temi si è tornato a parlare recentemente, in seguito alla divulgazione dei Facebook papers: i documenti sul colosso fondato da Mark Zuckerberg diffusi dalla gola profonda Frances Haugen.
Tra questi, è saltato fuori uno studio condotto dalla stessa azienda di Menlo Park – ma tenuto nascosto fino a pochi giorni fa – in cui vengono di fatto confermati e ampliati i sospetti emersi dalla ricerca del 2017 da cui siamo partiti.
Nello studio di Facebook un adolescente su tre (sia maschio sia femmina) dichiara di avere un rapporto problematico col social network, mentre il 32 per cento delle ragazze afferma che Instagram peggiori il rapporto col proprio corpo (contro un 22 per cento secondo cui contribuisce invece a migliorarlo). Più in generale, si legge sempre nello studio, «gli adolescenti che non sono soddisfatti delle loro vite affermano di essere negativamente influenzati dalla piattaforma».
Sentirsi inadeguati
Il sospetto, quindi, è che Instagram possa provocare depressione e senso di inadeguatezza. O almeno peggiorare la condizione di chi già è depresso, o già si sente inadeguato, e in più viene sottoposto al costante confronto con coetanei dalle vite (apparentemente) migliori e dalle metriche social più vistose.
Questi effetti collaterali prevedibilmente, non riguardano soltanto gli adolescenti: lo dimostra la maggiore propensione degli adulti che usano Instagram a sottoporsi a chirurgia estetica rispetto a coloro i quali invece non lo utilizzano.
Se a tutto ciò si aggiunge la dipendenza da social network volontariamente indotta dagli ingegneri della Silicon Valley – sfruttando contro noi stessi la dopamina prodotta dal cervello, che rilascia scariche di piacere a ogni like, commento o nuovo follower conquistato, contribuendo così a tenerci inchiodati agli smartphone – il processo si potrebbe dichiarare concluso: Mark Zuckerberg è colpevole di aver peggiorato le condizioni mentali degli adolescenti (e non solo) di tutto il pianeta.
Ma è davvero così? In verità, ancora oggi non è possibile affermare nulla di tutto ciò con certezza. Sia lo studio da cui siamo partiti, sia quello “nascosto” da Facebook si basano sulle affermazioni delle stesse persone intervistate.
Come ha però spiegato sul New York Times il docente di psicologia Laurence Steinberg, «spesso non siamo in grado di comprenderci bene quanto crediamo di fare».
La ricerca mostra altri limiti: prima di tutto, come segnalato nello stesso studio, «non è stato misurato direttamente se Instagram peggiori le condizioni delle persone, ma solo se le persone che già stanno vivendo certi problemi pensino che Instagram influenzi la loro situazione».
Causa ed effetto
Non è una differenza da poco. Nonostante negli ultimi anni sia stato ampiamente documentato un aumento – non solo tra i giovani – dei casi di solitudine e di disturbi mentali come ansia e depressione, non è ancora chiaro se e come questi siano collegati all’uso intenso dei social network che si è diffuso nello stesso arco temporale.
Districare causa ed effetto, o individuare se si tratti di una correlazione spuria, non è semplice: è l’uso dei social che rende depressi o è la depressione che porta a un uso maggiore dei social? O magari c’è un terzo fattore che contribuisce a entrambe le cose?
Gli studi sui legami tra social network e salute mentale dei più giovani sono ormai un genere a sé, eppure non è ancora possibile dare una risposta definitiva. Per riuscire nell’impresa – spiega ancora Steinberg – si dovrebbe fare ciò che ancora non si è fatto: indagare sul lungo termine «le differenze tra le persone che usano e quelle che non usano questo tipo di piattaforme, monitorandole nel tempo per osservare i cambiamenti durante il periodo preso in esame».
Dare un giudizio definitivo è reso ancora più complicato dall’esistenza di numerosi studi indipendenti – compreso uno molto citato pubblicato su Nature – che hanno individuato nessi irrilevanti tra problemi mentali e uso dei social, e altri che hanno invece mostrato come un uso non eccessivo di questi strumenti possa avere molteplici effetti benefici.
I potenziali vantaggi delle piattaforme social, d’altra parte, sono stati rilevati anche nello stesso studio di Facebook che ha portato Instagram sul banco degli imputati: le persone che hanno dichiarato che questo social alleggerisca il loro senso d’ansia sono tre volte superiori a quelle che ritengono che lo peggiori; i soggetti che indicano in Instagram uno strumento in grado di renderli più felici sono invece cinque volte superiori a quelli che lo accusano di renderli più tristi.
La solitudine tra noi
Qualcosa di simile si potrebbe affermare anche per la solitudine: i social che – secondo una diffusa opinione – ci spingono a restare chiusi in casa da soli sono gli stessi che rendono estremamente più semplice mantenere i contatti con gli amici, spesso incentivando riunioni e uscite di gruppo.
Se è inevitabile che un abuso dei social abbia conseguenze negative o che la dipendenza dai like possa creare problemi di autostima in alcune persone, sarebbe allo stesso tempo sbagliato individuare in questi strumenti un capro espiatorio, in grado di dare risposte semplici (e magari sbagliate) a chi deve affrontare una depressione in famiglia la cui causa potrebbe essere di tutt’altro tipo.
Allo stesso modo, sarebbe sbrigativo far credere che siano i social network i responsabili della crescita della percentuale di popolazione adulta che soffre di ansia, invece – per fare solo un esempio – delle difficoltà di una vita professionale sempre più precaria e che rende quasi impossibile fare progetti a lungo termine.
Nonostante i numerosi campanelli d’allarme, è il momento di lasciare da parte i pregiudizi, le sensazioni e l’aneddotica. E di progettare invece ricerche affidabili e sul lungo termine, in grado di dare una risposta a interrogativi sempre più urgenti.
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