- Ai tempi di Space invaders, la navicella che sterminava orde aliene, a nessuno sarebbe balenata l’idea di azzardare un parallelo con l’atletica leggera.
- Nell’anno in corso più di un milione e mezzo di persone ha seguito almeno una competizione di videogame, si chiamano eSport, alla settimana, su YouTube o, per i più aggiornati, su Twitch.
- Ottenere un riconoscimento planetario come l’accesso degli eSport nella lista delle discipline olimpiche varrebbe come un ulteriore, formidabile moltiplicatore del giro d’affari.
Sport: movimento, battiti cardiaci in aumento, spostamento. Sudore. Fiatone. Scindere il corpo dallo sport e continuare a chiamarlo sport, si può fare? Secondo la pesante campagna di comunicazione di una celebre bevanda alla taurina, sì: racchiusi nel sito ufficiale sotto la categoria «atleti», grazie a generose dazioni compaiono il finalista di Wimbledon 2021 Matteo Berrettini, la prossima portabandiera ai Giochi di Pechino Sofia Goggia, il campione di motocross Mattia Guadagnini e il portiere della nazionale Gigio Donnarumma.
Solo che, accanto a volée, parate, impennate e spigolate fa bella mostra di sé il viso pulito di Riccardo Romiti, detto Reynor, 19 anni, di Poggibonsi. Si allena ore e ore al giorno. Guadagna centinaia di migliaia di euro l’anno. È un professionista, conta migliaia di seguaci sul web e la definizione che dà di sé è quella di «professional player». Ma di cosa? Reynor, proprio come gli altri campioni dello sport, segue una rigorosa disciplina, deve reggere pressioni non comuni per un ragazzo della sua età. Questioni di centesimi di secondo e il match è perso: solo che, per giocare, non fa neppure un plissé.
Non pratica alcuna attività sportiva, anzi: ne interpreta la negazione, la passività. Sta seduto davanti a uno schermo, con un joypad in mano, per imparare a giocare, bene come pochi al mondo, a Starcraft II. Un videogame di strategia in tempo reale. Mesi fa ha vinto il campionato del mondo, l’Extreme Masters, sponsorizzato dal colosso dei microprocessori Intel: Reynor è riuscito nell’impresa di battere i fortissimi coreani.
Tifosi e giocatori
Sono i cari vecchi giochi elettronici. Ai tempi di Space invaders, la navicella che sterminava orde aliene, a nessuno sarebbe balenata l’idea di azzardare un parallelo con l’atletica leggera. Ma era un altro mondo. Nell’anno in corso più di un milione e mezzo di persone ha seguito almeno una competizione di videogame, si chiamano eSport, alla settimana, su YouTube o, per i più aggiornati, su Twitch.
Sono ascolti che non vengono raggiunti da buona parte degli sport trasmessi in tivù. Masse sedute davanti a uno schermo ad ammirare ragazzi a loro volta seduti davanti a un altro schermo. Intenti gli uni a giocare, gli altri – ciò che decenni fa succedeva a livello micro, nelle sale giochi – a tifare come fosse la finale di Champions League. Questo è. E se il titolo prediletto da Reynor, Starcraft, o l’altrettanto illustre Fortnite, spopolano nel loro genere, anche i videogame sportivi hanno il loro pubblico.
Nel calcio, da anni si combatte una lotta senza quartiere, a botte di testimonial e campagne spot milionarie, tra la serie Fifa di Ea Sports e Pes, Pro evolution soccer, di proprietà Konami. L’amministratore delegato di una delle società più conosciute al mondo per l’organizzazione di e-tornei, la sobriamente nominata Immortals gaming club, ha pronunciato una frase che per i meno transigenti suona più come una minaccia, che come una promessa: «Ogni giorno muore un tifoso di baseball, e ne nascono due di eSport».
Ed è vero. Il Cio è stato sollecitato a valutare l’essenza di questa disciplina da una moltitudine di istanze, prima tra tutte la base di appassionati in crescita vertiginosa. Pesano anche gli attestati di credito forniti dagli sportivi – veri – che amano sollazzarsi con i videogiochi in hotel, oppure nelle pause tra un impegno e l’altro. E si fa sentire, sempre più insistente, la pressione da parte delle aziende, che sanno quanto i fan degli eSport siano propensi a spendere rispetto ai telespettatori tradizionali (secondo stime di un rapporto Nielsen Sports, 40 euro al mese per oggettistica e pass per assistere a eventi, e un’attitudine del 20 per cento superiore rispetto a chi guarda sport in tivù a comprare ciò che viene sponsorizzato, dai servizi internet agli snack alle bevande).
Ecco perché ottenere un riconoscimento planetario come l’accesso degli eSport nella lista delle discipline olimpiche varrebbe come un ulteriore, formidabile moltiplicatore del giro d’affari. Per arrivarci bisognerebbe, però, spiegare al mondo che la medaglia d’oro di Marcell Jacobs nei cento metri piani e quella di Daniele Paolucci, altrimenti noto come Prinsipe, maestro del gioco calcistico Fifa 2021, pari sono.
Potrebbe succedere: del resto, ormai, nessuno si scandalizza se la Juventus – e come lei tanti altri club di valore assoluto – sigla accordi commerciali con giocatori, anzi, e-giocatori professionisti, e la stessa Lega del calcio reale organizza il campionato di e-Serie A con Ea Sports (cui la Juve non prende parte perché ha già venduto – come la Roma, la Lazio, il Napoli e l’Atalanta – i suoi e-diritti a Konami).
Orizzonte olimpico
Thomas Bach, il numero uno del Comitato olimpico, si è mostrato attendista: ha permesso la nascita dell’Ovs, l’Olympic virtual series, tornei di videogame scelti «tra quelli che non comportano il fatto di dover uccidere qualcuno», perché sarebbe difficilmente compatibile con i valori dei Giochi. Ma vela, canoa, ciclismo, baseball e motori non implicano alcun reato contro la persona e difatti, tra i medagliati nella scorsa edizione, c’è Valerio Gallo, che non è un pilota ma un simdriver, un guidatore di simulatori. Un ragazzo che a tre anni si è innamorato di un titolo storico nel genere, Gran Turismo, e ne è diventato tra i più abili interpreti.
Bach ha firmato il modulo di accettazione per nuove discipline ai Giochi di Parigi 2024, su alcune delle quali si era scatenato un dibattito feroce: la breakdance è davvero uno sport? E il surf? Ma le ragioni della disputa si concentravano su altro, giacché non è in discussione l’impegno fisico.
Qui no: la materia del contendere è la sostanza dell’e-gioco. Un atto che include falangi e sguardi, interagendo con una macchina. Lo si chiami come si vuole: non è sport. Neanche accompagnato dall’equivoco prefisso e-.
Tuttavia, questa banalissima e insuperabile constatazione potrebbe non contare granché. Ci sono mondi che si sposano per convenienza: il matrimonio tra i giochini (una volta si chiamavano così, benché oggi possa suonare offensivo) e gli sport reali, come nel caso dell’Nba negli Stati Uniti in cui franchigie e superstar guadagnano cifre mostruose grazie alla cessione dei diritti, spinge per spostare il confine sempre un po’ più avanti, fino a confondere il Ronaldo autentico con quello costruito in pixel.
Se LeBron James chiede consigli ai suoi fan per acquistare una sedia da gaming (perché devono avere certe caratteristiche, chi ha adolescenti in casa lo ha imparato a proprie spese) l’ago del mercato fa tac, e Fortnite corre a creare una skin (rivolgersi ai succitati per chiarimenti) in suo onore.
Il business totale degli eSport nel 2020 ha sfiorato il miliardo di euro e ha contato su una audience complessiva di più di 450 milioni di utenti. Fare spallucce non è la soluzione. Semmai li si potrebbe battezzare per quello che sono, a dispetto della incomprensione di chi è nato e cresciuto nell’èra analogica, e non ha memoria neppure di qualche pomeriggio trascorso al bar per tentare di finire Pac-Man: intrattenimento.
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