- Dopo anni di crisi, l’industria discografica è quasi tornata sui livelli pre-Napster. Il merito è di Spotify e degli altri servizi di musica in streaming
- Nel mondo delle serie tv, le cose sono andate molto diversamente: mano a mano che cresceva il numero delle piattaforme, aumentavano anche i consumi pirata
- Tra diffusione della cultura e guadagni comunque garantiti dal marketing, non sempre la pirateria è una nemica. Disney+ e gli altri sono i primi a essersene accorti
L’industria musicale ha raggiunto il picco economico nell’ormai lontano 1999, quando il giro d’affari globale sfiorò i 25 miliardi di dollari. Da lì, le cose iniziarono rapidamente a cambiare: solo cinque anni dopo, il mercato era già calato del 20 per cento; nel 2010, il fatturato complessivo era sceso sotto quota 15 miliardi. Un vero e proprio tracollo. La ragione è nota a chiunque, a cavallo degli anni Duemila, abbia utilizzato un computer collegato a internet: Napster, Emule, BitTorrent e tutti gli altri sistemi peer-to-peer consentivano di scaricare gratuitamente, in maniera pirata, tutta la musica che si potesse desiderare, facendo crollare gli introiti della case discografiche.
Gli anni trascorsi a combattere la pirateria a colpi di cause e tribunali si dimostrarono inutili: morto un Napster se ne faceva immediatamente un altro. Ciononostante, a partire dal 2015 la rotta si è invertita e l’industria musicale ha cominciato a riprendersi, crescendo anno dopo anno e superando nel 2021 il traguardo dei 20 miliardi di dollari di fatturato. Avanti di questo passo, nel 2023 il music business potrà finalmente festeggiare il ritorno ai vecchi fasti.
Cos’è successo? Dopo anni buttati nel vano tentativo di eliminare la pirateria, le case discografiche hanno compreso che la loro salvezza sarebbe passata dalle piattaforme che – ispirandosi proprio ai sistemi illegali – stavano portando un’industria elefantiaca come quella discografica nell’epoca digitale. Nel 2015, Spotify superava i 20 milioni di utenti. Nello stesso anno, il business della musica tornava a salire per la prima volta in oltre tre lustri. Da quel momento, la crescita vertiginosa della piattaforma svedese di streaming (che oggi conta 165 milioni di abbonati, ai quali si aggiungono quelli che usano la versione gratuita) è andata di pari passo con il ritorno in salute di tutto il settore e con la nascita di concorrenti come Apple Music, Tidal e non solo.
Morale della favola: la strategia migliore non era combattere a tutti i costi la pirateria, ma trattarla come se fosse un concorrente: offrendo una piattaforma migliore di Emule, BitTorrent e gli altri sotto qualunque punto di vista (comodità, qualità, sicurezza), ma a pagamento. La storia potrebbe concludersi qui, se non fosse che c’è un settore in cui le cose sono andate molto diversamente: l’industria cinematografica e delle serie tv.
Per qualche anno, Netflix sembrava viaggiare in parallelo con Spotify. Anzi, gli utenti crescevano molto di più e più rapidamente della piattaforma musicale svedese, raggiungendo 20 milioni di utenti già nel 2012 (oggi sono 213). Era la risposta perfetta alla pirateria cinematografica: un servizio di streaming che per una piccola quota mensile offriva un catalogo sterminato di film e serie tv. Poi, le cose iniziano a cambiare: è il 2013 quando viene lanciato House of Cards, diretto da David Fincher e con protagonista Kevin Spacey. È la prima serie tv originale di Netflix, che la produce direttamente vincendo anche 3 Emmy.
Al contrario delle piattaforme musicali, che permettono con un solo abbonamento di avere accesso a tutta la musica, Netflix decide di puntare sulle esclusive. Lo stesso fanno oggi tutti i suoi concorrenti: Disney+, Amazon Prime e Apple TV+; a cui si aggiungono i vari HBO Max, Peacock, Hulu e tutte quelle non ancora sbarcate nel nostro paese. Risultato? Mano a mano che crescono i concorrenti, ritorna a crescere anche la pirateria, che – secondo l’ultimo Internet Phenomena Report di Sandvine – l’anno scorso è tornata a livelli di utilizzo che non si vedevano dal 2015.
Se non bastasse, anche i giovanissimi della Gen Z – che si pensava non avrebbero nemmeno conosciuto l’universo di BitTorrent e compagnia – hanno iniziato a piratare film e serie tv. La ragione è facilmente intuibile: davvero un ragazzo che vive in una famiglia che non ha accesso a Sky accetterà di rinunciare a Game of Thrones, trovandosi così tagliato fuori dal fenomeno pop più importante dello scorso decennio?
Da un certo punto di vista, i giovanissimi sono stati costretti a rivolgersi alla pirateria, essendo troppo oneroso – per loro e anche per molte famiglie – sottoscrivere tutti gli abbonamenti necessari per non perdersi le serie tv del momento: da Squid Game su Netflix a The Mandalorian su Disney+, fino a The Boys su Amazon Prime. La moltiplicazione delle serie tv esclusive ha insomma ridato fiato alla pirateria, che è diventata una valvola di sfogo per degli utenti che – secondo un sondaggio condotto da Verizon – nel 56 per cento dei casi si sentono “sopraffatti” dall’eccessivo numero di piattaforme.
E chi invece non è interessato ai blockbuster del momento, ma vuole scoprire i film di Fellini, Bergman e gli altri capolavori della storia del cinema? Purtroppo, sulle piattaforme di streaming i classici del passato scarseggiano. Una carenza che, anche in questo caso, incentiva a rivolgersi alla pirateria, dove i film più rari e di nicchia sono a portata di click. D’altra parte, pensate davvero che una ragazza di 16 anni, nata con lo smartphone in mano, si rechi in biblioteca per noleggiare un DVD che ormai, spesso, non sa nemmeno come guardare? In attesa che nascano delle vere biblioteche digitali (un embrione potrebbe essere RaiPlay), sono state alcune piattaforme pirata a svolgere questo ruolo. È il caso tutto italiano del defunto, per questioni legali, Tnt Village: sito web che salvava, ordinava e catalogava innumerevoli film d’autore (e non solo), dedicando loro anche pagine illustrative e divulgative .
Ad aver generato il ritorno della pirateria, quindi, è da una parte l’insostenibile moltiplicazione delle esclusive e, dall’altra, la scarsità di capolavori del passato sulle grandi piattaforme (reperibili magari su servizi di streaming più di nicchia come Mubi). C’è anche un terzo elemento: in alcuni casi, per quanto possa sembrare paradossale, sono gli stessi colossi del settore a favorire attivamente la pirateria (o almeno a non ostacolarla).
L’anno scorso, invece di attendere la fine (o la pausa) della pandemia, Disney ha deciso per la prima volta di lanciare direttamente sulla sua piattaforma il film di punta dell’autunno 2020 (Mulan), eliminando in questo modo la barriera nei confronti della pirateria costituita dal cinema (che impedisce di avere immediatamente accesso a copie illegali in alta qualità). Nei prossimi anni, questa abitudine è destinata a diffondersi sempre di più, indipendentemente dalla pandemia e probabilmente affiancandosi all’uscita al cinema. È un enorme favore ai pirati, che nel momento stesso in cui un film approda su Disney+ o Netflix sono in grado di farne una copia di identica qualità.
Non solo: tutti i servizi streaming hanno dimostrato di avere una politica molto tollerante nei confronti della condivisione tra più persone delle stesse password, che permette di dividere le spese tra amici o parenti. Anche la battaglia nei confronti della pirateria si è fatta molto più morbida: siti illegali come Popcorn Time o Stremio funzionano da tempo (quasi) indisturbati. Come mai questa tolleranza? «Facendo consumare i suoi progetti di alto profilo attraverso mezzi sia leciti che illeciti, Disney si assicura che un’enorme macchina dell’hype si metta immediatamente in moto per promuoverli», scrive la docente di Nuovi Media a Berkeley Abigail De Kosnik. «Non importa che metà o più di questa macchina sia spinta dai pirati, perché ciò permetterà comunque alle altre proprietà di Disney di definire la cultura pop del momento e di assicurarsi che immense folle paghino parecchi soldi per abitare i mondi a cui si sono appassionati tramite lo schermo».
In poche parole, la pirateria è accettabile se moltiplica gli spettatori di una serie, perché questi pagheranno comunque per il merchandising, per i videogiochi, per le magliette, per visitare Disney World, ecc. ecc. Quanto ha guadagnato Disney con i pupazzi di Baby Yoda e tutto il merchandising tratto da The Mandalorian (la serie tv più piratata della storia)? E Netflix con i costumi di Halloween e tutti gli accessori legati a Squid Game?
Secondo uno studio pubblicato da tre docenti dell’Università dell’Indiana, la pirateria avrebbe inoltre la funzione di impedire alle piattaforme di alzare i prezzi indiscriminatamente e potrebbe anche spronarle a unirsi tra loro, per aumentare i cataloghi e impedire che la moltiplicazione dei concorrenti faccia crescere il consumo illecito oltre la soglia di tolleranza. Rispetto al passato, oggi si ha una maggiore consapevolezza di come la pirateria debba essere letta maggiormente in chiaroscuro. E i colossi dello streaming sono i primi a essersene accorti.
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