Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione


Viaggiando dentro la Sicilia ho visto città e quartieri infami dove l’essere umano vive al livello delle bestie e le bestie dentro le case degli uomini; ho visto paesi orribili e atroci dove i bambini hanno le mosche sugli occhi e le piaghe fra le dita.

Ma la miseria che ho visto in quei quartieri ed in quei paesi si ritraeva o si nascondeva al mio passare, come un verme sotto la terra, le donne chiudevano gli usci delle case perché non potessimo scrutarci dentro, i bambini restavano muti alle nostre domande e scivolavano via impauriti, cioè la miseria era una cosa misteriosa che la gente nascondeva come una tragedia lontanissima che apparteneva soltanto a loro ed alla quale noi non potevamo partecipare, nemmeno come spettatori, nemmeno con la nostra pietà.

Ho visto invece qui a Villa Lina, quartiere di una grande città siciliana, una miseria che è una vicenda corale. Il limite estremo della miseria. Io vi consiglio di andarci.

È semplice: arrivati a Messina percorrete tutto il viale S. Martino e quindi tutta la via Garibaldi fin quando, duecento metri prima che l’arteria finisca, c’è una freccia con la scritta «Palermo». Girate sulla sinistra ed imboccate appunto la via Palermo: continuate a salire, salire, fin dove la strada finisce e sulla destra c’è un ponte.

Oltrepassate quel ponte e là c’è Villa Lina, dove vivono i figli ed i nipoti dei terremotati del 1908. Immaginate una baracca fatta con i materiali più miserabili che un uomo possa raccattare: pezzi di lamiera, brandelli di eternit, fogli di cartone, tavole marcite, mattoni e tegole spezzate, fogli di celluloide, tutto questo tenuto insieme con chiodi, malta, filo di ferro, pietre. Immaginate duecento, quattrocento baracche così, infisse sulla creta di una collina, addossate le une alle altre, senza una stradina, un vicolo, un buco a terra che faccia da cesso.

E lì dentro tremila persone che dormono, mangiano, fanno l’amore, partoriscono, crescono e muoiono. Cominciando a camminare lentamente dentro questo quartiere pensavo che alle mie domande la gente si dovesse scostare da me impaurita ed offesa, ed invece è bastata la prima domanda perché ognuno cominciasse a gridare: «Io… io…!», le porte si aprissero, tutti quei tuguri si spalancassero come un palcoscenico sul quale la miseria vestita di tutti i cenci, le laidezze, i fetori corresse e saltasse gridando: «Qui… qui! guardi questo letto putrido, questo pavimento fatto di sterco, qui, qui… questa donna che muore…!» Cosa cercavo io a Villa Lina?

Cercavo gli emigranti, cioè quelli che stavano per partire oppure quelli che erano già tornati, le famiglie di coloro che bisogno e disperazione avevano cacciato in qualche altra parte del mondo. Cercare e capire, come avevo fatto in altri luoghi e paesi del Sud, le ragioni umane di questo loro abbandono, il limite della loro sconfitta. Chiesi subito infatti: «Io cerco gli emigranti! Le famiglie degli emigranti!»

C’erano tre donne sul limitare di una baracca. Tre donne che, invece di essere descritte, avrebbero meritato di essere dipinte, tanto ognuna di esse era un personaggio fisico e tutte e tre insieme componevano un gruppo straordinario. Una era un po’ grassa e bellissima, con i capelli neri e ricci, gli occhi grandi e neri, le labbra grosse e gonfie, i denti bianchi, gli orecchini di zingara, il seno maestoso.

L’altra era alta, magra, con una piccola testa ridente, la bocca minuscola, i capelli corti e gli occhi nerissimi. La terza infine era bassina, gracile, pallida e quieta, i capelli lisci tirati sulla nuca, uno sguardo dolce e rotondo. Tutte e tre erano incinte. Mi guardarono in silenzio come se non avessero capito ed io aggiunsi: «Sono un giornalista!»

Una di loro subito fece un grido, una specie di risata e con una manata spalancò l’uscio alle sue spalle: «Guardi!» Lì dentro su un letto c’era un uomo mezzo nudo che afferrò i pantaloni e cercò affannosamente di infilarseli. «Chi è?» cominciò a gridare, ma la donna mi trascinò dentro: «Guardi, guardi! Così si deve campare? Una sola stanza, qua ci dormono anche i tre bambini, qua dobbiamo dormire, cucinare, mangiare. Con tutto il rispetto se uno deve fare un bisogno dove va…?»

La donna piccolina mi afferrò però per la mano trascinandomi fuori. Gridava: «La mia è peggio. Una cosa schifosa…» Mi tirò in una specie di budello, cioè un canale di fogna fra un tugurio e l’altro e sbucammo in un cortile chiuso da tre baracche, in mezzo alle quali c’era una specie di pozzo sul quale erano appollaiati alcuni bambini: «Ha visto…?» gridò.

In quel momento infatti arrivò una bambina con un vaso da notte e ne rovesciò il contenuto dentro l’orribile buco al centro del pozzo. Poi lo ricoprì accuratamente con un foglio di cartone. La donnetta ebbe una risata isterica: «Ha visto? Una processione per tutta la giornata, arrivano da tutte le baracche vicine a buttare le loro porcherie. E noi che possiamo fare? Tante volte noi stiamo mangiando e gli altri ci passano davanti e scaricano. Salvatore glielo vuoi dire tu…»

Dall’uscio di una baracca sbucò il volto spaventato di un uomo un po’ calvo che teneva in mano una padella dove c’erano peperoni e pomodori ancora fumanti. Fece un inchino molto cerimonioso: «Lei deve scusare il disordine… Permette che mi presenti? Cicero Giuseppe, bidello delle scuole elementari e dipendente del Comune. Da diciotto anni pago seimila lire al mese di INA casa, mi sono fatto i conti: un milione e duecentosessantamila lire, ma sono costretto ancora a vivere dentro la baracca, una stanza sola, io sono malato, mia moglie è incinta, ci sono quattro bambini e una mi è morta di tifo a cinque mesi. Non so se mi spiego: è come e me l’avessero ammazzata. Prego, prego…»

Ci fece entrare nella baracca; il tetto di lastroni di eternit era sfondato in un angolo, il pavimento era fatto di basole sconnesse di pietra, lungo le pareti c’erano un apparecchio televisivo, un divano, un letto gigantesco, una cucina a gas, un quadro e una enorme consolle nuovissima, con lo specchio e la cornice dorata. «Mia moglie ha voluto comperare la stanza da pranzo» disse l’omino. «Certo un po’ di decoro si deve mantenere! Che siam animali? Ma quando piove l’acqua rovina tutto. Ma questo è niente: tutta la baracca è costruita sopra il pozzo nero, certi giorni così pieno che i mattoni si alzano. Guardi, guardi…!»

Battè con il piede sui mattoni ed a quella pressione, fra un interstizio e l’altro affiorò una bava orribile e scura, un fetore atroce si propagò di colpo dentro tutta la baracca. L’uomo fece un sorriso spaurito e camminò in punta di piedi per la stanza: Camminiamo leggeri leggeri, per non fare pressione sui mattoni, io ho paura che un giorno o l’altro sprofondiamo. Talvolta di notte i bambini soffocano. Gliel’ho detto: una figlia mi è morta di tifo e un’altra si è ammalata di leucemia. guardi poverina come è bella…!»

Fece una carezzina sulla testa di una bambina con un volto pallidissimo, i capelli rossi e due occhi enormi e azzurri che subito si mise a ridere e si gettò verso la madre. «Adagio» comandò l’uomo «Senza correre!» Uscimmo lentamente, in punta di piedi, io, l’uomo, la moglie, i bambini e dinnanzi l’uscio c’erano altre persone con i recipienti che continuavano a buttare lo sterco dentro il pozzo. C’erano anche una ventina di donne che cominciarono a parlarmi tutte insieme. Una con i capelli grigi gridava: «Mi dissero: signora, per cortesia, deve stare quindici giorni soli nella baracca e poi le diamo la casa popolare. Un sacrificio di quindici giorni. Ora sono passati quarantadue anni…»

Un’altra mi volle dare per forza nome e cognome: era alta, magra, con i capelli bianchi e gialli, con la bocca truccata e le sopracciglia disegnate a matita: «Giuseppa Nicolò, vedova con tre figli. Mio padre aveva vent’anni quando entrò nella baracca e ne aveva sessantacinque quando morì sempre dentro la baracca. L’ultima cosa che mi disse fu: Giuseppina, i topi! Stai attenta, non mi lasciare quando sono morto perché i topi mi mangiano sul letto… I topi, i topi…!»

Gridava, roteava gli occhi, agitava le braccia con raccapriccio e improvvisamente tutti si misero a gridare: «I topi, i topi, i topi…!» Ognuno aveva da raccontare qualcosa sui topi, chi diceva che al bimbo di pochi giorni gli avevano mangiato mezza testa, chi il piedino, chi diceva che la notte salivano sul letto per morderli, chi ne specificava la lunghezza quanto conigli.

Il bidello Cicero Giuseppe mi stava accanto con occhi spalancati e parlava anche lui: «Ce ne sono centomila almeno! Questo pozzo è pieno di sterco e di topi. Camminano sui tetti, stanno chiusi dentro i mobili, mangiano tutto quello che trovano, la sporcizia, il pane, le sedie, le coperte…» Fra tutte quelle donne se ne fece avanti una delle tre che avevo visto per prime: quella alta, magra, con i capelli corti e mi afferrò al braccio: «Io gli ho parlato per prima, io ho il diritto, fate largo, mia comare sta morendo e lui deve vederla…»

Da un cunicolo all’altro, seguiti da una folla di donne e di bambini, mi trascinò fino ad un’altra baracca. La cosa più stupefacente era l’allegria con cui seguivano o precedevano decine di bambini, tutti a mucchio, spingendosi, pestandosi, urlando, ridendo. Tutti gridavano che gli facessimo una fotografia, appena guardavo si mettevano in posa, venti bambini a mucchio arrampicati sopra un pozzo. Ma quella donna li scacciava e mi trascinava finché arrivammo dinnanzi all’uscio di una baracca, e là dentro vidi la donna che stava morendo.

Era distesa su un letto in mezzo alla stanza della baracca, con un viso esangue sprofondato in mezzo al guanciale, tutto il corpo immobile infossato in mezzo al letto e le braccia quasi spalancate. Un uomo le teneva una mano ed una bambina le teneva l’altra. Che potevo fare? Feci un sorriso: «Chiedo perdono signora. Non avrei voluto disturbare…!» «Niente, niente…» disse la donna con un filo di voce e lentamente riuscì a combinare il volto in un sorriso.

Aggiunse in un soffio: «Mi hanno operato di fibroma all’utero!» «Tanti auguri signora…!» «Grazie, grazie…» Silenzio. Davanti a me c’era quel letto sul quale la donna moriva delicatamente, l’uomo e la bambina che mi guardavano in silenzio, e tutt’intorno quattro pareti di legno sconnesso, un tetto di lamiera in alto, una cucina e due sedie in un angolo, una bacinella, e un asciugamani appeso ad un chiodo.

«Mio padre venne in questa baracca dopo il terremoto di sessant’anni fa - disse l’uomo -. Io sono nato qui, qui sono morti due figli miei, e ora stiamo morendo anche noi, io pure sono malato…»

La donna in agonia fece ancora un sorriso incredibile: «Che dice: non ce la meritiamo la casa popolare…?» «Certo signora…!» Feci qualche passo indietro: «Chiedo perdono ancora per il disturbo. Tanti auguri…!» «Grazie, grazie…!» Fuori dalla baracca subito un turbine di donne e bambini mi riavvolse e quella ragazza nera ed alta mi afferrò daccapo al braccio: «Ha visto. Che le avevo detto io…?»

Fece un riso di collera trionfante: «E questo è niente! Ora le faccio vedere…» Ma non riuscii a capire quello che volesse dirmi… Io chiedevo, dicevo che volevo parlare con un emigrante, qualcuno che stesse per partire, o che fosse partito e tornato… Ma non mi davano il tempo! Non mi davano retta. «Qui, qui…!» Mi fecero entrare in un’altra baracca ancora e c’era soltanto una donna magra, pallida, la quale si mise subito in posa vicino al letto e sollevò una coperta: «Mi fa la fotografia qui’!» disse «Vicino al letto, perché è una cosa importante. Questo letto infatti era di mio padre e mia madre che erano profughi del terremoto di Messina: essi ci hanno dormito quarant’anni e sono morti, qui ci sono nati quindici figli, otto dei quali sono morti, e sono nate anche le mie figlie, due delle quali sono sposate ed hanno partorito su questo letto…»

Parlava ancora quando la ragazza alta e magra mi trascinò di nuovo via: «Quello è niente, cose che fanno ridere! Questa baracca deve guardare, dove ci dormono marito, moglie e undici figli!» Sull’uscio c’era una donna grassa e incinta, con una grande testa nera e un bambino biondo e bellissimo in braccio. Disse: «Vuole vedere la mia casa, i miei figli? Avanti si accomodi…!»

Sollevò la coperta che stava appesa all’uscio e lì dentro apparve un grande frigorifero bianco, un armadio e tre letti sui quali stavano, seduti o coricati, una folla di bambini: alcuni leggevano, altri dormivano, una ragazzina di sedici anni si pettinava adagio i capelli, due gemelline stavano sedute, silenziose a mangiare, e un bambino piangeva. «Che belli! E suo marito cosa fa, signora…?» «Mio marito è mutilato! Si arrangia…»

Ordinò tutti i bambini attorno a sé: sembrava incredibilmente allegra, e aveva in realtà un aspetto opulento, parlava e rideva: «Io mi chiamo Eleonora Pitagna e sono calabrese. Abito qui da diciotto anni e con la grazia di Dio dico che un giorno ci debbono dare la casa popolare. Questo è il più piccino e si chiama Giacinto, quand’era di pochi mesi, povera creatura, i topi gli mangiarono un pochino del piede…» «Signora, ma lei che è calabrese, perché è venuta ad abitare in questa baracca? Suo marito perché non ha tentato di emigrare…?»

«Allora non l’ha capito che mio marito è mutilato… E poi, che fa? Dopo diciotto anni di sacrifici ci perdevamo la casa popolare…?» Parlavano tutte insieme, gridavano, c’erano almeno una cinquantina di bambini dai cinque ai dodici anni, che si spingevano, si picchiavano per essere in prima fila al momento di fare le fotografie, e furono loro a trascinarmi dinnanzi ad una specie di garitta di pietra dentro la quale c’era un bambino che faceva la pipì e rimase a gambe larghe con un sorriso ebete.

Gli fecero un grande applauso: «Monumento nazionale» gridò una donna «Qui c’è stato anche un ministro! Da questo punto preciso fece il discorso promettendo la casa popolare. Avremmo dovuto chiuderlo lì dentro e invece tutti gli battevano le mani. Dodici anni che aspetto…!»

D’un tratto dalla ressa sbucò un uomo, quasi un gigante, con la canottiera, il quale silenziosamente mi indicò l’uscio di una baracca dirimpetto. Gridò semplicemente: «Là deve entrare!»

Là dentro il suo tono cambiò di colpo: divenne umile e guardingo, si mise a tremare e gli uscì un filo di voce: «Attento! Lei non si deve fare ingannare, molti di loro sono imbroglioni! Sa cosa fanno? Vengono dai paesi della provincia per trovare lavoro a Messina e per centomila lire si comperano una baracca. Si fanno il conto che così, passa il tempo, ma alla fine il Comune gli dà la casa popolare. Tutto un trucco! Levano la casa a noi che ne abbiamo diritto. Lo sa di chi è questa baracca? Di mio nonno che era terremotato del 1908, poi di mio padre, ed ora è mia, sempre qui dentro la tana, ogni tanto viene un deputato o ministro: “Germanò Filippo, quanto tempo è che soffri? Bravo! Ora ti costruiamo una casa popolare”. E invece niente: sessantadue anni che la mia famiglia è chiusa qui dentro…!» Improvvisamente allargò le braccia e si mise a piangere. Chiesi: «Ma non ha mai pensato di emigrare, trovare un lavoro all’estero…?»

Continuava a piangere e mi guardava sbalordito: «Come emigrare? Perciò, dopo sessantadue anni, rinuncio al diritto alla casa popolare…?» Ho dinnanzi a me la faccia sbalordita di quell’uomo con le lacrime che gli scivolavano sulla bocca: non cercava nemmeno di spiegarmi la sua rassegnazione alla tragedia, ma semplicemente si lagnava che altri venissero a violare la sua sventura per sfruttarla. E questo improvvisamente mi dette il senso di quello che avveniva in quel quartiere: una spiegazione assurda ma perfetta.

Tutta la vita lì dentro come bestie: il fetore, i topi, le mosche, lo sterco, l’umiliazione perenne, i figli concepiti su un letto coperto già di altre creature vive, i bambini malati, i figli morti di tifo, la rinuncia totale alla dignità umana: tutto questo per conquistare una casa popolare fabbricata dallo stato. E restano lì. Una generazione dopo l’altra, ad aspettare. Ecco perché non incontrai un solo emigrante. Non ho visto mai un posto dove il fallimento dello stato combaciasse in modo così esemplare con il fallimento del cittadino.

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