Dallo stadio Maradona illuminato e avvolto dalle note di Pino Daniele alle sconcertanti immagini di Caivano, dalle fascinose inquadrature di Paolo Sorrentino alle storture di una città che ha nel chiaroscuro il suo Dna. Napoli è unica al mondo proprio per il suo carattere indecifrabile. Lo sa bene chi scrive e suona, chi usa le barre del rap e le serpentine della trap per vivere una seconda vita, lanciare messaggi o chiedere salvezza. Il viaggio nella scena rap napoletana restituisce l’immagine di un popolo stanco di pregiudizi ma anche lo spirito verace di ragazze e ragazzi che viaggiano sulle onde della speranza.
A Scampia, quartiere simbolo di un’umanità abbandonata ma poi, pian piano recuperata, dove i palazzoni bianchi conosciuti come le Vele sono quasi meta di un turismo del degrado, Johnny Dama ha aperto uno studio discografico e di produzione. Design minimal, accogliente, creativo e stimolante: un’isola felice nell’architettura della zona circostante. Il ragazzo è un videomaker, trasforma in immagini testi e messaggi del rap e della trap. Racconta: «Quando ho aperto questo posto, in pochi pensavano fosse un luogo per lavorare. Se avessi aperto una sala da biliardo, sarebbe stata accolta con più serietà».
Il rapporto con la tradizione è stretto: «Ora va di moda il rap neomelodico. Ed è una cosa fantastica: ho vissuto in America e lì il rap parla di carcere, del senso delle cose che avvengono per strada. Il neomelodico svolgeva lo stesso ruolo». E adesso lo si riprende in forma di rap.
Così Napoli, e le sue periferie, si prendono il loro spazio in una scena che – racconta il videomaker – «è dominata, per questioni logistiche, da Milano». «Ma ora qui – continua l’artista - vediamo sempre più studi, più etichette indipendenti che investono soldi in questo genere. Manca, però, ancora una visione di business».
Di visioni, immagini, colori e luci Dama si occupa ogni giorno curando i videoclip di tantissimi esponenti di una scena che, guardando ai modelli americani, rischia di appiattirsi sullo stereotipo del rapper arricchito e “imbruttito”.
«Per me – spiega il regista – non è un fatto negativo. È come se in un film drammatico inserisci l’elemento della persona che muore. Rende il girato aderente al genere. Così in un video trap, se vedi il passamontagna, capisci che non è rap. È trap».
Tra le Vele e il mare
Vettosi, che incontriamo sotto casa, sempre a Scampia, tra i panni stesi ai balconi che tanto affascinano l’immaginario internazionale, si presenta completamente di nero. Look senza eccessi sgargianti. Preferisce far parlare la sua storia. «A 16 anni frequentavo la scuola in maniera sporadica, non mi è mai piaciuto andarci. Poi l’ho lasciata per andare a lavorare. Mentre componevo pezzi, ho incontrato un contatto discografico».
Da lì è poi arrivato l’incontro con il guru Guè Pequeno. Una consacrazione. Vettosi ha impresso le sue barre nel singolo “Marco da Tropoja” assieme proprio al producer e rapper milanese e a Dj Harsh. Nel brano, l’intervento di Vettosi, che su Instagram, come tanti, si rivendica “real”, è rigorosamente in napoletano: «Non sono com sti rapper/spingo forte». Vettosi afferma fortemente la «sua lealtà, nell’approccio con la musica e con le persone». Continua: «La strada è importante perché ti presenta aspetti negativi e positivi. Per esempio la sofferenza. Provarla ti porta a immergerti nel sentimento e ti spinge a volere di più. È uno stimolo. È questo che mi ha portato, alla mia giovane età, a raggiungere traguardi importanti».
È giovanissimo anche Nicola Siciliano. Classe 2002, lo incontriamo in un contesto differente. Siamo nello studio di suo padre, un avvocato, in un appartamento che si affaccia sul lungomare e sul Maschio Angioino. La vista dalla finestra, dove il rapper si fa trovare poggiato, con aria pensosa, è mozzafiato.
Eppure Siciliano arriva dal quartiere meno prosperoso di Secondigliano, ha vissuto anche lui la strada, poi l’ha portata nei suoi testi. Due gli album pubblicati, di cui il secondo “Napoli 51”, pubblicato dalla Sony e costellato da collaborazioni con artisti di primo livello della scena. Da Ketama a Sick Lucke passando per Clementino.
Siciliano racconta di «aver studiato musica e canto, grazie al supporto della famiglia, prima di avvicinarsi al rap» che considera «una valvola di sfogo, una seduta di psicoterapia». Il rapper preferisce distaccarsi dal racconto della malavita, che pure ha conosciuto a Secondigliano: «Non ho mai visto la serie “Gomorra” perché ha dato un’immagine diversa di quello che la zona è realmente. Non mi ha mai affascinato parlare di aspetti negativi. Perché nel quartiere ci sono tanti talenti che vogliono seguirmi, fare musica, emanciparsi».
Soks e il King
Usciti dall’ufficio dove abbiamo incontrato Siciliano avevamo davanti a noi il Maschio angioino mentre aspettavamo un messaggio da Peppe Soks. È così che la scena trap conosce Giuseppe De luca, 26 anni di Salerno: arriva accompagnato dal manager e da O’ Tsunami, un altro artista della scena. Occhialetti da vista dorati, felpa con brand ben in vista. Ci sediamo in un bar, ci guardano tutti. Con un profilo Instagram di circa duecento mila followers, Peppe Soks è un rapper conosciuto, racconta in dialetto napoletano la vita nei quartieri.
«Basta bere un caffè ascoltando le storie della gente al bancone per capire quali disagi vive. La trap fatta qui è diversa da quella di Milano» ci spiega premendo nel frattempo play sul brano Passamontagna: «Milano parla, Napoli spara», canta Peppe Soks.
Tutto quello che i suoi colleghi possono scrivere per creare hype, nella sua zona accade davvero. Esiste la droga venduta dai ragazzini ai bordi delle strade, esistono i furti e le minacce. Non ci sono finzioni a Napoli, si è disposti persino ad ammazzare per le proprie fragilità. E la trap ne diventa quasi testimone e al tempo stesso motivo di riscatto.
«Siamo disposti a rimboccarci le maniche per riempire le nostre tasche», un’altra barra che definisce il peso di questo genere musicale che per la generazione di Peppe Soks equivale per certi versi allo spazio di una nuova prospettiva.
«Nella musica c’è la mia libertà» dice convinto Tony King, che ci dà appuntamento vicino a un negozio di frutta e verdura del Rione Sanità. Abita a qualche metro da questa bottega dove un uomo col microfono segnala le offerte del giorno. Ci sediamo a bere un caffè, davanti a noi c’è la Basilica di Santa Maria alla Sanità.
In una delle sue stanze è allestito un ring da pugilato dove i ragazzi e le ragazze del quartiere possono allenarsi. Si tratta di uno dei progetti della parrocchia per offrire un’alternativa ai giovani della zona, «perché si può diventare altro qui, non soltanto uno spacciatore o uno che chiede il pizzo. Io sono la prova vivente».
Tony King accende una sigaretta e ci chiede di non fare caso a chi passando lo guarderà lanciandogli un’occhiataccia o qualche insulto fra i denti. «In quella chiesa ho imparato a fare musica suonando nell’orchestra e ho scoperto chi sono davvero – ci racconta, con gli occhi umidi velati dal fumo – e lo so che è assurdo capire di essere trans proprio in un posto del genere, eppure è successo e oggi so guardarmi dentro».
Tony King ha iniziato il percorso di transizione sottoponendosi all’intervento chirurgico di mastectomia e liposuzione dei fianchi. Quando ha pubblicato il suo primo pezzo trap “Macarena”, i social si sono riempiti di commenti che chiedevano se l’artista fosse uomo o donna. «La mia voce è la mia cifra stilistica. Sopporto ogni giorno gli insulti e lo sdegno della gente, ma non per questo ho voglia di nascondermi».
I suoi brani parlano di amore e di lotta all’odio. Li dedica alla sua fidanzata, con cui ha una storia tormentata perché la sua famiglia non intende accettare una relazione con un trans. Anche esprimersi sui social è spesso difficile per Tony, che viene bannato quando prova a far valere le proprie idee.
«Alla Sanità non devi soltanto guardarti le spalle dalla criminalità, ma devi essere forte abbastanza da sopportare l’odio che solo l’ignoranza sa generare. Vivo ogni giorno con il peso di dover scegliere tra l’essere un cantante o innamorarmi». Alle minacce di morte Tony è ormai abituato, ma non si rassegna. «Se anche solo uno o una si sentirà al sicuro pensando alla mia storia, allora avrò vinto io».
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