Può dunque dirsi provato che fu Parisi a suggerire a Scalfaro il nome di Di Maggio; e il suggerimento incontrò il pieno gradimento del presidente, [...] verosimilmente perché Scalfaro aveva avuto modo di registrare una piena consonanza di vedute sulla necessità di trovare una dignitosa via d’uscita da Tangentopoli, per arrestare la deriva delle istituzioni.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Esiste una diversa lettura che meglio si accorda con tutti i dati disponibili sulla vicenda.
Francesco Di Maggio è perfettamente al corrente di cosa bolle in pentola, e avvisa per tempo la procura di Palermo di tenersi pronti a intervenire. Ma poi succede qualcosa, che lo induce a lasciare correre, a non contrastare quella iniziativa.
Certo è che egli neppure a fatto compiuto riterrà di parlarne con la procura di Palermo, magari per sollecitare la trasmissioni di quelle specifiche indicazioni sulle posizioni dei detenuti Di Maggiore rilievo che avrebbero potuto indurre il ministro a un ripensamento della propria decisione: se è vero che alla procura di Palermo non se ne parlò più al punto che la dott.ssa Principato ha candidamente confessato di avere saputo di questa vicenda solo a seguito delle indagini sfociate in questo processo. E dopo l’annotazione di suo pugno scritta su quella risposta della procura di Palermo del 30 ottobre, egli tace. Non v’è traccia di sue comunicazioni ufficiali, e neppure di Note o appunti da allegare all’archivio dell’ufficio detenuti, né ulteriori richieste di chiarimenti.
Nulla che faccia trapelare una sua netta opposizione alla decisione del ministro, fatti salvi gli sfoghi personali con soggetti a lui particolarmente vicini, da cui si evince la sua insoddisfazione, il suo dissenso su come erano state gestite certe questioni che inerivano il 41 bis e il suo rammarico per essersi lasciato prendere la mano.
Ma la tempra e l’energia e l’irruenza del personaggio, che non si peritava di mettersi a muso duro contro il ministro, erano tali che è arduo credere che egli non avrebbe fatto fuoco e fiamme per contrastare una scelta così delicata e ditale rilievo strategico, se non l’avesse condivisa o non si fosse trovato nella condizione di non potervisi opporre (magari perché era una scelta suggerita o assecondata dagli autorevolissimi sponsor che ne avevano favorito la designazione a Vice Capo del Dap: ipotesi non peregrina).
C’è, in effetti, la notizia confermata da Capriotti e da Calabria di contrasti molto accesi anche con il ministro e addirittura di una lite che sarebbe occorsa proprio nel periodo in questione (tre o quattro mesi dopo l’immissione in possesso, che risaliva la 16giugno 1993) secondo il ricordo di Capriotti che ebbe ventura di entrare nella stanza del ministro proprio durante quella lite furiosa). Ma non c’è stato verso di far dire a Capriotti se l’oggetto della lite riguardasse questioni inerenti al 41 bis; ed anche Calabria è stato molto generico sui motivi dei contrasti tra Di Maggio e Calabria, limitandosi a dire che vertevano soprattutto sul modo in cui impiegare consistenti aliquote di personale della Polizia penitenziaria
Ma in quella frase che la Ferraro attribuisce a Di Maggio in un momento particolarmente vibrante, in cui lei confessava al suo amico il biasimo e la delusione per una decisione che sembrava tradire tante convinzioni ideali da entrambi condivise si coglie il senso dell’atteggiamento molto combattuto con cui il Di Maggio deve aver vissuto quella vicenda; e si capisce anche il disappunto per il modo in cui era stata confezionata la Nota del 29 ottobre.
Ed invero, il silenzio di Di Maggio, come già detto, è già una spia eloquente del fatto che egli avesse, alla fine, condiviso la scelta del ministro, o vi avesse prestato acquiescenza. Lo dimostra soprattutto il silenzio serbato, a fatto compiuto, con i responsabili di quegli stessi apparati investigativi che lui stesso aveva voluto rendere partecipi di un osservatorio permanente sullo stato di applicazione del 41 bis; e il silenzio con la procura di Palermo, a fatto compiuto e dopo che in precedenza l’aveva invitata a tenersi pronta ad interloquire.
Ed ancora il silenzio con i suoi amici e abituali commensali delle cene romane, anche nel periodo in cui si snodò tale vicenda, che ricoprivano ruoli apicali negli apparati investigativi o di intelligence dell’epoca: non una parola, se stiamo alle loro testimonianze, ai vari Ganzer e Morini, con i quali la vicenda non avrebbe mai formato oggetto di commenti, o di esternazioni di qualunque genere da parte del Di Maggio, neppure a titolo di sfogo personale.
La verità è che il 29 ottobre 1993, i giochi sono ormai fatti. Non v’è ragione di dubitare dell’affermazione di Conso quando dice che aveva già preso la sua decisione fin da quando gli erano stati sottoposti i distinti elenchi di detenuti per i quali scadevano i due gruppi di decreti.
E già prima del 30 ottobre, quando annota il suo contrariato stupore sulla Nota di risposta della procura di Palermo (ma con riferimento all’iniziativa dell’Ufficio Detenuti), Di Maggio era informato sia dell’imminente scadenza di un gran numero di decreti applicativi, sia della discussione che ferveva in merito e dell’orientamento del ministro, che si mostrava propenso a non prorogarli. Ed ecco la ragione del suo disappunto.
Volendo ricamare sulle sfumature semantiche dell’espressione testuale che la Ferraro attribuisce al Di Maggio, dovrebbe inferirsene che egli si fosse prestato ad un’operazione che però era andata oltre i limiti da lui stesso divisati (mi son lasciato prendere la mano). E in effetti, l’operazione per come si stava realizzando, e poi si realizzò concretamente, travalicava i limiti che lui stesso aveva preventivato o deragliava rispetto al tracciato immaginato.
Quello che certamente egli aveva condiviso era uno sfoltimento massiccio del 41 bis, utile a lanciare un segnale di distensione da dispiegarsi però in una direzione precisa: al popolo di Cosa nostra e delle altre organizzazioni criminali di stampo mafioso, ma a beneficio delle seconde linee, di coloro che non potevano, per il loro minore rilievo all’interno delle Consorterie di appartenenza, avere avuto alcun ruolo e corresponsabilità nelle scelte strategiche dello stragismo mafioso, mentre la linea dura andava riconfermata con fermezza nei riguardi dei capi o di coloro che per il fatto di continuare a ricoprire ruoli apicali, e per la loro fedeltà ai corleonesi potevano reputarsi corresponsabili dello stragismo.
Ma a tal fine, e affinché il messaggio risultasse chiaro e nitido, era essenziale distinguere. E non bastava che alla decisione di sfoltire la massa di decreti c.d delegati si accompagnasse la contestuale decisione di prorogare in blocco il secondo gruppo di decreti, quelli che andavano a scadere il 31 gennaio 1994 e che riguardavano nella loro quasi totalità figure di spicco delle varie organizzazioni mafiose.
Nomi di mafiosi altisonanti
Anche all’interno del gruppo dei decreti delegati, che riguardavano in teoria personaggi di minore spessore, era necessario operare un’analoga selezione, individuando i personaggi che ad onta della loro classificazione fossero meritevoli di un trattamento più rigoroso.
L’operazione che la Nota del 29 ottobre lasciava adombrare non rispecchiava queste caratteristiche.
Anzitutto per le sue dimensioni, traducendosi in un totale e indiscriminato azzeramento in pratica di tutti i (residui) decreti che erano stati a suo tempo emessi nell’esercizio della potestà delegata dal ministro Martelli ai “tecnici” del Dap (ne restavano 373 alla data del 26 giugno, ma nei mesi successivi per diverse decine erano intervenuti provvedimenti di revoca o non si era proceduto al rinnovo di quelli in scadenza) e in una sollecitazione a circoscrivere il più possibile il ricorso allo strumento del 41 bis. Si era quindi approfittato di quella occasione - e lo si evince anche da alcune assonanze testuali - per rilanciare alcune delle linee programmatiche condensate nell’Appunto a firma Capriotti del 26 giugno che già Di Maggio aveva dimostrato di non condividere, almeno in linea di principio.
Tra l’altro, se si può prestare fede alle pur reticenti e confuse dichiarazioni rese da Capriotti alla Dda di Caltanissetta il 6 dicembre 2011, tra i motivi della lite o comunque dei contrasti che Di Maggio ebbe con il ministro Conso v’era anche la questione della delega a provvedere sull’applicazione del 41 bis, che Di Maggio avrebbe voluto per sé, mentre Conso non delegò né a lui né al Direttore Capriotti, anche se (come ben rammenta il dott. Ardita) non vi fu mai un provvedimento formale di revoca della delega che a suo tempo era stata disposta dal ministro Martelli.
Già nel preambolo del documento programmatico del 26 giugno si rassegnava come dato di certezza che la delega in oggetto non era più operante. E adesso si completava l’opera, spazzando via tutto ciò che era rimasto dell’esercizio di quella delega.
Ma soprattutto, si era rinunciato a qualsiasi selezione, impedendo di fatto alle autorità inquirenti consultate di poter fornire tempestivamente le informazioni che avrebbero potuto giustificare quella selezione, con il risultato che nel mucchio di figure effettivamente di secondo piano (pur trattandosi sempre di soggetti pregiudicati o imputati per reati gravissimi che andavano dall’omicidio all’estorsione aggravata al traffico di stupefacenti, commessi nell’ambito delle associazioni criminali di appartenenza) finivano per beneficare di quel gesto di distensione anche personaggi di levato spessore criminale e mafiosi di rango: come i 16 affiliati a Cosa nostra specificamente elencati nell’informativa illustrata dal teste Bonferraro, tra i quali anche esponenti di spicco delle famiglie mafiose di Trapani, Messina e di Catania; e, per ciò che concerneva Cosa nostra palermitana, spiccavano i nomi di Di Carlo Andrea, della famiglia mafiosa di Altofonte, fratello di Di Carlo Francesco, Antonino (detto “Nenè”) Geraci, storico capo mafia di Partinico e Giuseppe Farinella, storico capo mafia di San Mauro Castelverde con competenza su un vasto territorio madonita, entrambi componenti, peraltro, della Commissione Provinciale di “cosa nostra”; oltre a “seconde linee” che però appartenevano a storiche “famiglie” dell’organizzazione mafiosa, quali Francesco Spadaro (figlio del noto Tommaso detto “Masino” Spadaro), Spina Raffaele, della famiglia della Noce, (cognato del noto Raffaele Ganci e di Gambino Giacomo Giuseppe), Francesco Scrima, famiglia di Porta Nuova, imparentato con Pippo Calò, Giuseppe Gaeta, di Termini Imerese, esponente di spicco del mandamento di Caccamo, Giuseppe Fidanzati, che proveniva dalla famiglia mafiosa dell’Arenella, Prestifilippo Giovanni (già pure componente della “Commissione”), Diego Di Trapani, della famiglia mafiosa di Cinisi.
E senza trascurare ovviamente, personaggi come Grippi Leonardo, cognato di Tagliavia Francesco (che alla fine sarà condannato per la strage di Firenze e connessi reati) ed esponente di spicco della famiglia di Corso dei Mille, e Giuliano Giuseppe, della famiglia mafiosa di Brancaccio (che sarà condannato per le stragi in continente); nonché quel Vito Vitale che però solo anni dopo scalerà le gerarchie dell’organizzazione divenendo il capo della famiglia di Partinico.
E se di qualcuno dei predetti poteva essere incerta l’effettiva e attuale collocazione nello scacchiere degli schieramenti mafiosi, di molti dei predetti poteva dirsi quanto meno che appartenevano a famiglie storicamente alleate dei “corleonesi”.
Si può dunque comprendere perché Di Maggio abbia confidato alla sua amica Liliana Ferraro che si era lasciato prendere la mano. E tuttavia la rassicura che ce l’avrebbero fatta, invitandola a non dubitare del suo proposito di portare a compimento, sul versante della politica carceraria, quello che era stato il disegno di Giovanni Falcone.
E non è azzardato scorgere lo zampino del Di Maggio in alcune delle decisioni adottate dal ministro Conso alla fine di gennaio ‘94, quando vennero rinnovati quasi in blocco i decreti che riguardavano i detenuti mafiosi Di Maggiore calibro. Si può concedere che, come ha dichiarato Conso, tale decisione fu presa contestualmente a quella di non prorogare i decreti delegati, operando un taglio netto tra i due gruppi di decreti. Ma è certo che si ebbe anche qualche intervento correttivo degli esiti prodotti dal mancato rinnovo di quei decreti.
In particolare, tra le posizioni che potevano far gridare allo scandalo, almeno una platea di addetti ai lavori, v’erano quelle di Nené Geraci, capo del mandamento di Partinico, e storico alleato di Salvatore Riina; di Andrea Di Carlo, della famiglia mafiosa di Altofonte, che faceva parte dello zoccolo duro dello schieramento corleonese; di Giuseppe Grassonelli, boss in ascesa della mafia agrigentina, oltre ai citati Farinella Giuseppe e Grippi Leonardo. Ebbene, mentre per 6 decreti c.d. delegati venuti a scadenza tra il 27 e il 31 gennaio 1994 si adottò la medesima decisione già presa di farli decadere senza rinnovarli [...], di contro, per Geraci Antonino si lasciò scadere (il 27 gennaio’94) il decreto delegato che prevedeva un 41 bis “attenuato”, ma tre giorni dopo venne emesso un nuovo decreto applicativo del 41 bis e a firma del ministro.
Allo stesso modo si procedette nei riguardi di Di Carlo Andrea e di Grassonelli Giuseppe, mentre per Giuliano Giuseppe bisognerà attendere altri due mesi per analogo ripristino del 41 bis, con provvedimento emesso dal ministro il 30 marzo ‘94 (e ancora più tempo trascorrerà per il ripristino del 41 bis a Farinella Giuseppe, 2 agosto ‘94; e per Grippi Leonardo, 30 novembre 1994).
Il Presidente Scalfaro e Vincenzo Parisi
Sotto altro profilo va ribadito che l’orientamento dell’Ufficio che aveva specifica competenza in materia, e cioè l’ufficio detenuti, era sempre stato favorevole ad un ridimensionamento significativo dell’ambito di applicazione del 41 bis. […] Ma è pure vero che tale orientamento, e le ragioni di cui si nutriva, si sposava armonicamente con tutta una linea che sottotraccia percorreva gli ambienti istituzionali e faceva capo al presidente Scalfaro, molto sensibile a pressanti richieste di andare incontro alle voci di sofferenza che si levavano dal pianeta carcere, veicolategli dai rappresentanti di organizzazioni cattoliche a lui molto vicini, ed anche alle denunce e
segnalazioni di abusi e maltrattamenti nell’applicazione in particolare dei regime speciale previsto dal 41 bis; e sensibile altresì al rischio che quella sofferenza andasse ad alimentare la violenza mafiosa, per ritorsione o per dare soddisfazione agli affiliati che soffrivano le conseguenze del carcere duro e ai loro familiari. I quali, peraltro, già s’erano fatti vivi a febbraio del ‘93 - contestualmente ai gravi fatti di Poggioreale, e ai disordini seguiti alla decisione di applicare il 41 bis ai due penitenziari napoletani - con quell’esposto dai toni minacciosi, cui erano seguiti a distanza di tre mesi, gli attentati di via Fauro, a Roma e di via de Georgofili, a Firenze.
È plausibile che la certezza che quel documento, che per rigore semantico, proprietà di linguaggio e scorrevolezza denota il possesso di un’istruzione persino superiore alla media, provenisse da ambienti organici o contigui alla criminalità mafiosa, suscitasse preoccupazione negli apparati di polizia e dei servizi addetti alla sicurezza del Presidente.
E se ci si cala nel clima dell’epoca, potevano persino destare impressione, anche se si tratta di mere suggestioni che non trovarono poi alcun concreto fondamento, la coincidenza che il primo attentato, che segnava la ripresa dell’offensiva stragista, fosse stato ai danni di Maurizio Costanzo, che figurava tra i destinatari dell’esposto; e il secondo attentato, commesso a Firenze ai piedi della storica Torre delle Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili, ma anche in prossimità della chiesa di S.Stefano e Cecilia, richiamava in qualche modo un altro dei destinatari di quell’esposto, il vescovo di Firenze.
E se Scalfaro era preoccupato che il malessere e le voci di protesta che si levavano dal mondo carcerario potesse infiammare o fornire pretesto per una recrudescenza della violenza stragista, il Capo della Polizia Vincenzo Parisi è altrettanto preoccupato delle ripercussioni sull’ordine e la sicurezza pubblica della crescente tensione nelle carceri.
Risale forse ai fatti di Poggioreale, e alla decisa presa di posizione del Capo della Polizia per un’immediata revoca del 41 bis che era stato applicato indiscriminatamente a tutti i detenuti dei due penitenziari napoletani, il primo scricchiolio delle convinzioni di Parisi sulla necessità di attestarsi sulla linea della fermezza nell’applicazione del regime di detenzione speciale, senza fare alcuna concessione (soprattutto a fronte di una dichiarata disponibilità e prontezza della controparte interessata ad un ammorbidimento a desistere da proteste e disordini o peggio iniziative violente, come era accaduto negli incontri svoltisi alla prefettura di Napoli con i rappresentanti dei detenuti di Napoli Secondigliano e Poggioreale).
E che le convinzioni iniziali di Parisi possano essere vacillate — e siano vacillate nel misurarsi concretamente con le conseguenze immediate che la tensione nelle carceri, esasperata dai rigori del carcere duro, poteva produrre sulla tenuta dell’ordine pubblico e sulla sicurezza collettiva anche all’esterno del carcere — si desume non solo dalle dichiarazioni di Nicolò Amato, che assemblano conoscenze del tempo insieme al portato di una sua successiva personale rielaborazione e rimeditazione dei fatti, ma anche dalla testimonianza del Prof. Arlacchi, consulente per anni della Dia. Questi conferma che Parisi ebbe, sul 41 bis, un orientamento ondivago, perché da convinto fautore della sua utilità come strumento di prevenzione e contrasto alla criminalità mafiosa, cominciò nel tempo a nutrire dubbi, paventandone le ripercussioni sull’ordine pubblico. Ma c’era anche una ragione più profonda a dire dello stesso Arlacchi, che spiegherebbe la complessità dell’atteggiamento del Capo della Polizia sul tema.
[…] Ebbene, facendo un passo indietro rispetto all’autunno del ‘93, e tornando all’avvicendamento dei vertici del D.A.P., la sostituzione improvvisa di Nicolò Amato, fortemente voluta dal Presidente Scalfaro, per le modalità con cui fu attuata, fu, come già rilevato, espressione della volontà di dare un segnale nella logica del capro espiatorio, ma non soltanto.
Si dava in pasto una vittima sacrificale e al contempo si apriva la strada a un mutamento nell’indirizzo di politica carceraria che, ad onta della posizione ufficiale del Governo Ciampi appena insediatosi, fosse più attento agli aspetti della tutela dei diritti dei detenuti che alle esigenze di prevenzione e difesa della collettività contro il rischio di aggressioni delle organizzazioni criminali.
Il disegno di favorire un nuovo corso della politica carceraria, coagulatasi su un asse che passava per il rapporto preferenziale che legava Scalfaro a Parisi e la vicinanza del Capo dello stato ad ambienti cattolici particolarmente sensibili alle istanze di tutela della popolazione dei carcerati, trovava peraltro terreno fertile tra i tecnici e i funzionari del Dap..
Ed è innegabile che Amato avrebbe potuto rappresentare un ostacolo sia perché insofferente di qualunque pretesa di ingerenza nelle prerogative dei vertici del Dipartimento e dell’Amministrazione cui faceva capo, che era quella del Ministero di Grazia e Giustizia e non l’Amministrazione dell’interno e tanto meno i vertici della Polizia [...]; sia perché pur essendo lui stesso favorevole ad un superamento della normativa emergenziale di cui il 41 bis era un tipico prodotto, tuttavia avrebbe desistito dalla più rigorosa applicazione di questo strumento eccezionale soltanto nel quadro di un riassetto complessivo del sistema carcerario che attenuasse gli aspetti puramente afflittivi del regime speciale di detenzione, facendo però salva l’esigenza di recidere per il detenuto mafioso ogni possibilità di comunicare con l’esterno e di mantenere legami che gli consentissero di perpetuare il suo potere; e sottoponendo comunque i detenuti mafiosi ad un trattamento penitenziario differenziato, con restrizioni funzionali al soddisfacimento delle esigenze di sicurezza e di prevenzione (sia pure senza necessariamente tradursi in una maggiore afflittività).
Ma fino a quando fosse rimasta in vigore la normativa emergenziale, Amato ne sarebbe stato inflessibile custode e fermamente determinato ad assicurarne la sua più rigorosa osservanza, respingendo qualsiasi pretesa di interferenza o pressione da parte di altre Amministrazioni.
Il cuore del problema
Ed allora, si torna a quello che giustamente il dott. D'Ambrosio indicava come il cuore del problema. Esso non riguarda le ragioni dell’improvvisa sostituzione dei vertici del Dap. e il ruolo propulsivo che vi ebbe il Quirinale, che può dirsi ormai accertato. E non riguarda tanto l’individuazione di chi volle che fosse Di Maggio, (letteralmente sconosciuto al ministro che lo nominò su proposta di un Direttore del Dap., Capriotti, che a sua volta non sapeva chi fosse) ad andare a ricoprire il posto di Vice di Capriotti. Anche sotto questo profilo può dirsi accertato l’input di Scalfaro sia pure su suggerimento di Parisi.
Le annotazioni contenute nell’agenda di Ciampi sono illuminanti sul punto e non lasciano adito ad alcun dubbio. Anche se non è tanto rassicurante il sospetto che attraverso la mancanza di trasparenza associata allo stravolgimento di regole di competenza e procedure nel pervenire a quelle nomine abbia finito per proiettarsi sulle relative scelte l’ombra lunga dei Servizi.
A parte il legame di Parisi con l’ambiente da cui proveniva, non è rassicurante che un altro “suggeritore”, e cioè Monsignor Fabbri, che si è intestato di avere suggerito il nome di Capriotti sapendo che sarebbe stato gradito a Monsignor Curioni, abbia candidamente confessato di essere da anni legato a esponenti qualificati dei Servizi; tanto legato da non avere avuto remore a farsi consigliare e istruire se convenisse rispondere alla citazione della procura di Palermo per essere sentito sulla vicenda che aveva visto coinvolti i due alti prelati nella concertazione del successore di Nicolò Amato.
[…] Può dunque dirsi provato che fu Parisi a suggerire a Scalfaro il nome di Di Maggio; e il suggerimento incontrò il pieno gradimento del Presidente, [...] verosimilmente, perché, se si assemblano gli spunti offerti dalle testimonianze di Gaetano Gifuni e di Tito Di Maggio, c’era già stato un approccio poco tempo prima sul tema dell’inchiesta Mani Pulite, e Scalfaro aveva avuto modo di registrare una piena consonanza di vedute sulla necessità di trovare una dignitosa via d’uscita da Tangentopoli, per arrestare la deriva delle istituzioni. E dava garanzie di affidabilità che un personaggio del genere fosse al vertice operativo del Dap. perché la gestione dei pentiti in carcere ed anche il trattamento detentivo cui erano sottoposti i soggetti coinvolti nell’inchiesta Mani Pulite nei suoi tanti rivoli e filoni erano tra i punti dolenti della vicenda, e stavano a cuore sia di Scalfaro che di Parisi.
Ma è lecito chiedersi se le ragioni della scelta di Francesco Di Maggio non attenessero “anche” o “piuttosto” a quelle stesse ragioni che avevano indotto Scalfaro ad accelerare la defenestrazione di Nicolò Amato. Sotto questo decisivo aspetto, le risposte che il giudice di prime cure e la sentenza impugnata hanno dato nel motivare l’adesione al costrutto accusatorio, fanno risaltare, piuttosto, la fragilità ditale costrutto.E per le ragioni già esposte, è solo una scorciatoia dialettica, che non spiega e tanto meno prova alcunché, rifugiarsi nella considerazione che se Di Maggio, che pure aveva fama di essere un duro, fu preferito per il ruolo di Vicedirettore a Giuseppe Falcone, a sua volta scartato perché ritenuto troppo duro, allora vuoi dire che Di Maggio era stato catechizzato a dovere da Parisi, il suggeritore di Scalfaro su come interpretare il ruolo per cui era stato designato.
Nel prospettare questa conclusione come unica spiegazione possibile, […] si omette poi di considerare che Parisi poteva avere anche altre ragioni che ne giustificavano l’interesse a cogliere la palla al balzo — sfruttando l’occasione offerta dalle ambascerie per la nomina del Vice di Capriotti — per piazzare una persona di propria fiducia in un posto così strategico (per la gestione dei pentiti in carcere, per il controllo dei colloqui investigativi, per drenare o prevenire possibili abusi del pentitismo a tutela degli esponenti politici che potevano essere animi da propalazioni calunniose o delegittimanti; per avere all’interno del Dap e in posizione influente una persona non pregiudizialmente avversa a intromissioni dell‘Amministrazione dell’interno nella gestione delle vertenze più delicate: [...]); sia pure senza escludere l’eventualità di servirsene come pedina più o meno inconsapevole di una gestione flessibile del 41 bis.
[…] Ma la ricostruzione sposata dal giudice di prime cure vola ancora più in alto, perché dà per certo che Parisi, condividendo con Mario Mori l’obbiettivo di un ammorbidimento del 41 bis, che nell’ottica di Mori avrebbe dovuto facilitare lo sviluppo del dialogo a suo tempo avviato con Cosa nostra per giungere ad un intesa che ponesse fine alle stragi, abbia a sua volta ricevuto da Mori il suggerimento di caldeggiare la nomina di Di Maggio, notoriamente molto vicino ad ambienti dell’Arma e anche ad Alti Ufficiali con incarichi di rilievo anche nel Ros. (come il generale Ganzer) e negli apparati di sicurezza (come il Col. Bonaventura e il Maggiore Morini).
Si tratta ancora una vota di una catena di congetture, in parte plausibili ma prive di qualsiasi elemento di prova che le supporti.
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