Rimangono interrogativi che si legano a quelli relativi alla mancata perquisizione del covo di Riina e alla condotta favoreggiatrice di Provenzano da parte dei carabinieri del Ros al comando del generale Mori — che sotto l’aspetto oggettivo e fattuale è stata accertata.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
S’intende che questa ipotesi ricostruttiva, come già più volte anticipato, presuppone che Mori e gli altri due ufficiali partecipi dell’operazione Ciancimino — incluso Subranni che l’avrebbe consapevolmente avallata — fossero edotti dell’esistenza di una profonda spaccatura interna a Cosa nostra, tra un’ala militarista, e determinata a portare avanti la strategia stragista della tensione, e una componente più moderata, non incline a proseguire su quella strada e propensa piuttosto ad abbassare i toni, evitare iniziative delittuose che inasprissero ulteriormente la reazione repressiva dello stato e negoziare eventuali benefici attraverso collusioni e complicità interne agli apparati politico — istituzionali, invece di terrorizzare la classe politica: l’ala “trattativista”, insomma, nel senso precisato dal senatore Mancino, che in effetti esisteva e faceva capo proprio a Bernardo Provenzano.
E se, come s’è visto, un vago sentore dell’esistenza di una simile spaccatura era con tutta probabilità una percezione già condivisa dagli analisti più avvertiti degli apparati investigativi e di intelligence dell’epoca (sia pure senza una precisa cognizione degli esponenti mafiosi più rappresentativi dello schieramento moderato), i Carabinieri del Ros avevano le carte in regole per esserne edotti prima e più di ogni altro apparato di polizia, poiché disponevano già all’epoca di informatori o di fonti confidenziali riconducibili, direttamente o indirettamente, all’area provenzaniana, o comunque in grado di dare indicazioni orientative dei diversi schieramenti che si fronteggiavano dietro l’apparente monolitismo corleonese e della composizione di massima di tali schieramenti: le fonti del M.llo Lombardo, il povero Francesco Brugnano e, naturalmente, su tutti proprio Vito Ciancimino.
Per tacere poi di quel Cancemi che irrompe sulla scena solo un anno dopo, il 22 luglio del ‘93, consegnandosi proprio ai Carabinieri, e che sarà gestito dal Ros per diversi anni prima di essere affidato al personale del servizio di protezione. Cancemi, infatti, dichiarò che una delle ragioni che l’avevano spinto a quel passo era la consapevolezza che Provenzano era pronto a farlo eliminare, poiché proprio quella mattina gli aveva dato un appuntamento e già qualche tempo prima Raffaele Ganci (che era stato arrestato a Terrasini il 10 giugno dello stesso anno) lo aveva messo in guardia a non recarsi a eventuali appuntamenti con Provenzano perché non ne sarebbe uscito vivo.
Nelle successive dichiarazioni questa giustificazione del suo gesto evapora. Ma un clamoroso riscontro alla fondatezza di quel timore è venuto proprio dalle dichiarazioni di Antonino Giuffré, il quale ha confermato che Cancemi doveva essere eliminato; e di ciò ha diretta contezza perché c’era pure lui insieme a Provenzano ad attendere Cancemi quella mattina, in una casa messa a disposizione da Benedetto Spera a Belmonte Mezzagno: «aspettavamo al Cancemi. che non è arrivato, perché invece di venire da Provenzano, se n è andato in caserma. Dopo di ciò non si è commentato niente, diciamo, ha avuto paura e si è andato a costituire».
Giuffré ha aggiunto che Cancemi doveva essere ucciso perché ritenuto un soggetto inaffidabile. Ma il motivo per cui fosse ritenuto tale, lo sapeva Provenzano e non ne parlarono. Può solo supporre che si fosse dato credito a voci che accusavano il Cancemi di essere uno sbirro, cioè un confidente (probabilmente qualcuno soleva anche dire discorsi a livello di sbirro).
La difesa (di Mori) ha però eccepito che proprio dalle rivelazioni di Cancemi, divenuto collaboratore di giustizia, sarebbero venute indicazioni secondo cui, dopo l’arresto di Riina, proprio il Provenzano aveva ribadito, al cospetto di altri uomini d’onore in una delle riunioni tenutesi per discutere il da farsi, che bisognava andare avanti secondo la linea dettata da Riina e che tutto procedeva per il meglio. Sicché non potrebbe essere essere stato Cancemi a informare i Carabinieri che Bernardo Provenzano fosse l’esponente di vertice cui faceva capo lo schieramento più moderato e meno incline a pRoseguire la strategia stragista.
Sennonché le parole che Cancemi attribuisce al Provenzano e l’esortazione a pRoseguire sulla strada tracciata da Riina richiamano in modo impressionante le espressioni usate da Giuffré per riassumere i commenti ufficiali all’arresto di Riina e le raccomandazioni sciorinate da Provenzano in quei frangenti: che contrastavano però con il suo reale orientamento ed erano dettate solo dalla convenienza a non esporsi e tentare di fare passare la sua vera linea attraverso una graduale opera di persuasione.
E lo stesso Cancemi, del resto, si lascia scappare un riferimento pregnante al ruolo di Provenzano quale esponente più autorevole e rappresentativi dell’ala “trattativista” nell’interrogatorio del 15 marzo 1994 (assunto sempre presso gli uffici del Ros e alla presenza del colonnello Ganzer e del maggiore Obinu): il primo atto processuale in cui parla della convinzione di Riina (e della sua cerchia più ristretta) che stragi e delitti eclatanti avrebbero indotto lo stato alla trattativa; mentre la gran parte degli affiliati era di diverso avviso e paventava che la reazione dello stato sarebbe stata molto dura e avrebbe potuto mettere in crisi l’assetto stesso di Cosa nostra.
Ivi, alla domanda se alla luce delle reazioni dello stato e del conseguente inasprimento del trattamento carcerario non fosse ormai chiaro che le aspettative di Riina e dei suoi sodali fossero andate deluse, ha risposta in termini interlocutori, dando risalto al fatto che Provenzano fosse ancora libero (vedremo Provenzano è ancora libero). E ciò che più colpisce nella risposta, è il riferimento all’essere Provenzano in libertà, in un momento in cui erano ancora liberi pure Brusca e Bagarella e Matteo Messina Denaro, ossia i più convinti fautori — insieme ai Graviano, che invece erano da quasi due mesi già consegnati alle patrie galere — della linea dura; e che in effetti erano riusciti ad emarginare in qualche modo o a mettere sotto tutela il Provenzano, perché di fatto erano stati loro a dettare la linea e a reggere le fila dell’organizzazione, per tutto il 1993. Ma Provenzano viene da Cancemi accreditato della capacità di portare avanti, nell’interesse di Cosa nostra, la linea di una trattativa con lo stato: opzione che Cancemi evidentemente ritiene, grazie a lui, ancora possibile.
Naturalmente, la decisione di Cancemi di andare a costituirsi alla caserma che era sede della sezione anticrimine di Palermo del Ros; e l’essere stato preso in custodia da personale del Ros (come confermato anche dal Col. Ganzer) in luogo del personale del servizio di protezione, e senza essere attinto da misure restrittive, oltre alle voci raccolte negli ambienti di Cosa nostra da Giuffré sull’inaffidabilità di Cancemi, non sono elementi che consentano di affermare con certezza che egli fosse un confidente degli stessi Carabinieri del Ros già molto tempo prima che decidesse di affidarsi alla loro “protezione”. Ma è l’ipotesi più probabile.
Il Ros già a conoscenza della spaccatura interna di Cosa nostra
Ma c’è un documento, con una data precisa, che attesta come i vertici del Ros, e quindi la catena di comando che nell’estate del ‘92, faceva capo quale comandante a Subranni e quale comandante operativo a Mori, passando per il maggiore Obinu quale comandante del reparto centrale Criminalità organizzata (fino al capitano De Caprio quale comandante della I sezione del reparto Co) fossero edotti o in condizione di essere edotti dell’esistenza di una spaccatura in seno a Cosa nostra del tipo di quella di cui s’è detto.
E tra le pieghe delle dichiarazioni rese da Giuseppe De Donno all’udienza dell’8.03.201 I nel processo Mori/Obinu se ne coglie una prudente ma esplicita conferma. Ed invero, alla domanda se, per quelle che erano le conoscenze investigative dell’epoca (estate del ‘92) si sapesse già dell’esistenza di una spaccatura all’interno di Cosa nostra, o di divergenze di visioni strategiche tra Riina e Provenzano, il capitano De Donno dà una risposta evasiva; ma, al contempo, lascia intendere che, sebbene addirittura si ipotizzasse da parte di qualcuno che Provenzano fosse morto — inferendolo dalla notizia che la moglie era tornata a vivere a Corleone, insieme a tutti i suoi figli — la possibilità di una spaccatura o di un contrasto tra i due boss corleonesi era effettivamente materia di confronto e discussione, in seno alla magistratura e agli apparati investigativi, almeno come ipotesi, pur mancando ancora una reale cognizione dei fatti.
E si riteneva di poter rinvenire il motivo ditale contrasto nella propensione di Provenzano a privilegiare gli affari, contrapposta alla linea dura di Riina, che propugnava una strategia di contrapposizione frontale allo stato.
Indi, il De Donno è stato compulsato su quanto a sua conoscenza in ordine ad un documento redatto su carta intestata al Ros, datato 30 maggio 1992— ossia proprio l’epoca in cui viene concepita e avviata l’operazione Ciancimino — e proveniente dall’archivio centrale del Ros, che riporta notizie trasmesse da una fonte ritenuta affidabile circa l’esistenza di una profonda spaccatura che sarebbe stata in atto all’interno di Cosa nostra.
Nel documento predetto si leggeva infatti che la fonte aveva riferito di una profonda spaccatura al vertice di Corleone tra Riina e Provenzano; e la stessa fonte, pRosegue il documento, “ha ribadito l‘esistenza di una profonda spaccatura che provoca con lentezza, ma inesorabilmente, dei decisivi mutamenti nelle alleanze, con conseguenti ripercussioni sull‘intera stabilità della struttura mafiosa isolana”.
De Donno ha negato di essere a conoscenza di quell’appunto, ma non dubita della sua “genuinità”, e della sua provenienza dall’archivio del Ros. Sostiene però che si tratta dell’elaborazione a cura del reparto centrale di notizie provenienti dai terminali periferici della rete informativa dello stesso Raggruppamento; e quindi, sarebbe del tutto plausibile che egli non ne sia mai venuto a conoscenza […]. Ora è chiaro che ciò che importa non è se De Donno avesse mai letto quell’appunto; ma che fosse edotto delle informazioni in esso contenute.
E riesce davvero difficile credere che non ne sapesse nulla, visto che quelle informazioni attenevano specificamente ad un ambito di indagine in cui all’epoca lo stesso De Donno si apprestava a proiettarsi con l’operazione Ciancimino. E tuttavia, De Donno nega di essere stato a conoscenza di una fonte che già all’epoca in cui intraprese i contatti con Ciancimino aveva confermato l’esistenza di una profonda spaccatura tra Riina e Provenzano.
Anche per questo documento, che rinvia in definitiva a informazioni di fonte confidenziale, vale la considerazione già svolta per alti documenti che riportano notizie di fonti confidenziali: la sua utilizzabilità è circoscritta al fine di provare che al vertice del Ros già all’epoca fosse oggetto di valutazione, o addirittura ritenuta degna di fede, anche sulla base di informazioni raccolte dalle varie fonti che componevano la variegata rete informativa, l’ipotesi dell’esistenza di una profonda divisione di vedute odi contrasti all’interno di Cosa nostra e persino al vertice dello schieramento mafioso.
Le due “fazioni” della mafia e la cattura di Riina
Quanto all’effettiva esistenza di quella divisione già nell’estate-autunno del ‘92, vero è che i collaboratori di giustizia che hanno riferito circa il delinearsi di due opposti schieramenti (anzi, tre, stando a Giovanni Brusca che annovera proprio Cancemi insieme a Michelangelo La Barbera e a Raffaele Ganci tra gli indecisi o coloro che avevano assunto una posizione intermedia e di attesa), uno fautore della prosecuzione della strategia stragista (facente capo a Brusca, Bagarella, i fratelli Graviano e Matteo Messina Denaro) e l’altro più moderato e propenso a desistere da una contrapposizione frontale allo stato (facente capo a Bernardo Provenzano, ma che annoverava anche Aglieri, Carlo Greco, Benedetto Santapaola, e altri, oltre allo stesso Giuffré), hanno concordemente datato l’emersione di questo contrasto alle settimane e i mesi immediatamente successivi alla cattura di Riina.
Ma è chiaro che profonde divergenze di vedute strategiche, e una divisione in schieramenti nettamente contrapposti non poteva germinare in un’organizzazione complessa come Cosa nostra da un giorno all’altro e solo per effetto della fibrillazione causata dall‘arresto del capo dell’organizzazione.
La verità è che la cattura di Riina ha avuto l’effetto di portare alla luce contrasti e divisioni che esistevano già da tempo, ma erano latenti perché, imperando Riina, nessuno di coloro che si riconoscevano nell’indirizzo che per comodità di esposizione si può definire “moderato”, avrebbero avuto l’ardire di uscire allo scoperto e manifestare il proprio dissenso al cospetto di altri uomini d’onore: a meno che non si trattasse di sodali dei quali non fossero assolutamente certi di potersi fidare in quanto partecipi dello stesso orientamento.
È del resto quanto Giuffré riferisce a proposito delle due versioni di cui Provenzano si faceva latore nei commenti sulla cattura di Riina: quella “ufficiale”, in occasione di riunioni con i capi o i reggenti di vari mandamenti; e le convinzioni e i progetti di cui in privato metteva a parte gli uomini d’onore a lui più vicini.
Ma, tranne Giuffré, che però era detenuto nella seconda metà del ‘92 e solo dopo essere stato scarcerato nel gennaio del ‘93 ha potuto incontrare Provenzano, trovandolo trasformato come se fosse un’altra persona per quanto sembrava cambiata la sua visione strategica, tutti gli altri collaboratori di giustizia che hanno riferito della contrapposizione tra i diversi schieramenti delineatasi all’indomani della cattura di Riina provenivano dalle fila della c.d. ala dura; e quindi poco ed anzi nulla sapevano dei dissensi che stavano fermentando tra gli affiliati della componente moderata.
Peraltro, lo stesso Giuffré ha dichiarato che i rapporti tra i due capi corleonesi si erano incrinati già a partire dalla fine degli anni ‘80. E già nel processo Mori/De Caprio, sentito al dibattimento, aveva fornito indicazioni pregnanti sul punto, datando al 1987 il solco via via approfonditosi tra Riina e Provenzano, e il graduale formarsi negli anni di due schieramenti contrapposti e facenti rispettivamente loro capo. E sempre in quel processo, dichiarazioni di analogo tenore in ordine al solco scavatosi tra Riina e Provenzano aveva reso Giovanni Brusca, a proposito dei sospetti circolati sul possibile contributo di Brugnano allo sviluppo dell’indagine poi sfociata nell’arresto di Riina.
L’azione del Ros: disinnescare la minaccia mafiosa
Le risultanze scrutinate consentono nel loro insieme di ritenere provato, o, quanto meno, appurato in termini di elevatissima probabilità, che l’iniziativa intrapresa dai Carabinieri del Ros attraverso in contatti intrapresi con Vito Ciancimino nell’estate del ‘92 si dislocò lungo una traiettoria di sviluppo divergente e addirittura incompatibile con l’ipotesi accusatoria.
Sebbene fosse molto di più che una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence, essa non era affatto diretta a creare le basi di un accordo “politico” con gli stessi autori della minaccia maflosa, accettando il rischio che ne uscisse rafforzato il proposito di rinnovarla o di specificarla, ed anzi strumentalizzando tale rischio per indurre il Governo a fare delle concessioni, sia pure come male necessario per prevenire nove stragi ed arrestare l’escalation mafiosa.
Al contrario, l’obbiettivo era quello di disinnescare la minaccia mafiosa, incuneandosi con una proposta ulteriormente divisiva in una spaccatura che si confidava già esistente all’interno di Cosa nostra, pur non avendone la certezza, per volgerla a favore di una disarticolazione e di una neutralizzazione dello schieramento e della linea stragisti. E ciò attraverso una sorta di ibrida alleanza da stringersi senza necessità di stipulare alcun patto, ma conclusa per facta concludentia e solo in ragione di una obbiettiva convergenza di interessi con la componente più moderata di Cosa nostra.
A questo punto, l’indagine sull’elemento soggettivo del reato per cui qui si procede, almeno per quanto concerne la posizione dei tre ufficiali del Ros odierni appellanti, potrebbe anche fermarsi qui. E non avrebbe importanza, ai fini del presente giudizio, accertare cosa ne sia stato della proposta finale di Mori e De Donno a Ciancimino (l’unica che ne rispecchiava le reali intenzioni), e la collaborazione che ne segui. Né avrebbe importanza, quindi, stabilire se l’ex sindaco di Palermo veicolò in qualche modo la proposta al suo destinatario (identificabile in Bernardo Provenzano); e se Ciancimino abbia poi dato un effettivo contributo alla cattura di Riina, e se Provenzano — al di là dei dubbi che rodono Riina e delle certezze rassegnate da Giuffré – vi abbia a sua volta avuto un ruolo.
Tutti interrogativi che si legano a quelli relativi alla mancata perquisizione del covo di Riina e alla condotta favoreggiatrice di Provenzano da parte dei Carabinieri del Ros al comando del generale Mori — che sotto l’aspetto oggettivo e fattuale è stata accertata — a cui almeno due processi definiti con sentenze passate in cosa giudicata hanno dato risposte parziali o interlocutorie o, comunque, tali da non dissipare dubbi, perplessità suscitate dalle tante incongruenze e dagli aspetti di opacità che sono stati riscontrati nell’operato dei Carabinieri.
Se non fosse che proprio gli sviluppi successivi della vicenda, oltre ad impegnare una parte cospicua dell’istruzione dibattimentale di primo grado, hanno formato oggetto di valutazioni di segno opposto, traendone in particolare il giudice di prime cure elementi ed argomenti a supporto della ricostruzione fattuale su cui la sentenza appellata fonda la pronunzia di condanna dei tre ufficiali del Ros. ed avendo il P.g., in questo secondo grado del giudizio investito una parte considerevole dello sforzo di approfondimento mirato a corroborare sul piano probatorio tale esito nel ritornare, alla luce di nuove emergenze processuali e con specifiche richieste istruttorie e sollecitazioni ai poteri officio di questa Corte, sul tema, in particolare del disegno sotteso ad una condotta favoreggiatrice della latitanza di Bernardo Provenzano che i carabinieri del Ros.
© Riproduzione riservata