Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Il documento di protesta redatto dai magistrati “dimissionari” della procura di Palermo nei giorni immediatamente successivi alla strage di via D’Amelio, verteva in misura preponderante sul malessere per condizioni di lavoro che non consentivano di portare avanti con efficacia la lotta alla c.o., a causa, principalmente, di inefficienze, o colpevoli inerzie, o improvvisazione e mancanza di adeguata pianificazione da parte degli organi preposti alla tutela della sicurezza dei colleghi più esposti (come era stato il dott. Borsellino), ma anche per la ritenuta impreparazione e l’inadeguatezza del personale di polizia addetto ai servizi di scorta. Ivi si stigmatizzava, come fattore di aggravamento del rischio per gli stessi magistrati, “la perdurante latitanza degli altri poteri dello stato sul fronte della complessiva risposta istituzionale alla criminalità mafiosa e precipuamente sul terreno cruciale dei rapporti mafia-politica, che finisce con il creare le condizioni di una loro oggettiva ed esclusiva sovraesposizione”.

Il documento deplorava altresì la “conclamata incapacità da parte degli organi responsabili di dare concreta esecuzione alle sentenze definitive di condanna mediante la cattura dei latitanti, e, in particolare, di alcuni dei capi di Cosa nosra”, rinvenendovi un altro fattore che contribuiva a rendere sterile gli sforzi della giurisdizione penale per contrastare il fenomeno mafioso, alimentando in noi un senso di frustrazione se non di inutilità del lavoro svolto e dei rischi conseguenti.

Solo nella chiosa finale si segnalava l’esistenza di divergenze e spaccature acuitesi dopo la strage di via D’Amelio e che solo una guida particolarmente autorevole e indiscussa potrebbe ricomporre e sanare, così esprimendo in effetti un apprezzamento fortemente critico, ancorché indiretto, all’operato del capo dell’ufficio. Pure il documento redatto in pari data (23 luglio 1992) da altri nove colleghi del medesimo Ufficio per esprimere la loro piena solidarietà ai colleghi “dimissionari” della Dda magistrati, oltre a condividerne le motivazioni nella parte in cui evidenziano le oggettive condizioni di impossibilità a continuare la lotta alla criminalità mafiosa, accenna al constatato clima di contrapposizione e disagio all’interno dell’Ufficio nel suo complesso.

Ma le audizioni dinanzi al Csm dei magistrati predetti e anche degli altri magistrati della procura di Palermo che non avevano sottoscritto nessuno dei due documenti citati (nonché dello stesso procuratore Giammanco, e del procuratore generale e dell’avvocato generale) e i chiarimenti forniti anche sulla genesi e le finalità perseguite nel redigere quei documenti danno un’idea adeguata e aderente al vero delle divergenze e spaccature interne all’Ufficio, ivi segnalate.

Sotto accusa l’operato di Giammanco

Se ne ricava un quadro convincente delle problematiche che vi avevano dato causa, e che poco o nulla avevano a che vedere con presunti dissensi e contrasti sulle scelte adottate in ordine all’indagine mafia e appalti.

Al netto di questioni e divergenze fisiologiche in qualunque ufficio giudiziario, specie se di grosse dimensioni — come i criteri di assegnazione dei fascicoli, la creazione di gruppi di lavoro o pool specializzati per tipologie di reati o con ulteriore ripartizione per ambiti di “competenza” territoriale, l’eccessiva parcellizzazione che poteva derivarne a procedimenti, come quelli per reati associativi e di associazione mafiosa, in particolare, per i quali sarebbe stata consigliabile o addirittura necessaria una trattazione unitaria; ed ancora, i criteri di cooptazione di nuovi sostituti nella Dda — al capo dell’ufficio si rimproverava, a torto o a ragione da parte dei magistrati più critici del suo operato, scarsa sensibilità al problema della sicurezza e un approccio tendenzialmente burocratico” alla conduzione delle indagini, attento, soprattutto per quelle più delicate, più alle reazioni che le scelte adottate potessero suscitare in seno all’opinione pubblica che al merito di quelle scelte.

Tutti convenivano peraltro sulle capacità manageriale del procuratore Giammanco, che aveva implementato come mai erano riusciti a fare i suoi predecessori la dotazione di mezzi, attrezzature e anche personale dell’Ufficio di procura, e sulla sua capacità di instaurare rapporti più che cordiali e persino accattivanti, sul piano umano, con i singoli sostituti, e sulla sua disponibilità a venire incontro alle esigenze di ciascuno. E tutti escludevano che al procuratore Giammanco potessero ascriversi propositi e tentativi di interferire nella conduzione delle indagini da parte dei magistrati che vi erano preposti, o di orientare le scelte da adottare o di esercitare la benché minima pressione per condizionare l’esito di un procedimento.

Al procuratore si riconosceva altresì di avere introdotto una prassi destinata almeno nelle intenzioni a rendere più partecipativa l’attività dell’ufficio per le indagini più delicate, con periodiche assemblee o riunioni tra i magistrati della D.D.A. che potevano così confrontarsi e scambiarsi idee e informazioni sulle rispettive indagini. Anche se non è mancato chi ha stigmatizzato come la collegialità delle scelte dell’Ufficio fosse più apparente che reale perché il procuratore o, meglio, i sostituti a lui più vicini non di rado giungevano alle riunioni con soluzioni già preconfezionate e che ben poco spazio lasciavano alla discussione (cfr. De Francisci e Sabbatino).

Non gli si perdonava però, da parte dei magistrati più critici — in particolare da parte degli otto “dimissionari” — di avere concorso a causare una perdita di credibilità esterna dell’Ufficio, a causa delle sue frequentazioni con uomini politici molto chiacchierati e discussi per le loro presunte o accertare relazioni con ambienti della criminalità mafiosa, o ritenuti contigui ad essa.

La “vicinanza” a Mario D’Acquisto

Era notoria in particolare la sua amicizia, mai negata ed anzi pubblicamente ammessa, con l’onorevole Mario D’Acquisto, ritenuto peraltro molto vicino a Salvo Lima. Quel legame personale, ancorché del tutto disinteressato e risalente a epoca non sospetta, dava adito a facili speculazioni o ad un non peregrino sospetto che il capo di una delle procure più esposte nell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa e impegnata anche in delicate indagini sul versante di possibili collusioni tra mafia e politica fosse in qualche modo avvicinabile o influenzabile a vantaggio di taluni indagati, o per preservare influenti personaggi della politica da possibili indagini a loro carico.

Andava considerato che, a fronte della progressiva sensibilizzazione dell’opinione pubblica al tema degli intrecci collusivi tra mafia e politica, la circolazione della notizia, consacrata come dato processualmente acquisito in un noto processo qual era il maxi ter di frequentazioni dell’on. D’Acquisto con soggetti in odor di mafia, cui si aggiungevano altre acquisizioni probatorie in indagini più recenti, non poteva che appannare l’immagine di imparzialità e indipendenza di un ufficio che doveva essere tenuto indenne anche solo dal più vago sospetto di inquinamenti, compromissioni, compiacenze verso ambienti o personaggi legati alla criminalità mafiosa. Tanto più perché si trattava di un ufficio giudiziario che era stato già fatto segno in tempi recenti (e cioè appena un anno prima) ad attacchi e polemiche alimentate da velenose campagne di stampa e pubbliche prese di posizione di autorevoli esponenti di un movimento politico, sfociate anche in un esposto al Csm.

La presenza e il prestigio di Falcone e di Borsellino avevano fatto per così dire da scudo contro il lievitare della sfiducia dei cittadini nei riguardi di una delle Procure più esposte sul fronte della lotta alla mafia, ed esposta essa stessa al sospetto di non volere andare fino in fondo nell’indagare su connivenze e collusioni politico-mafiose.

Ma dopo la loro morte, era venuto meno il principale baluardo contro la perdita di credibilità dell’Ufficio, che, a dire di alcuni dei magistrati “dimissionari”, era un dato di fatto di cui non poteva non tenersi conto, perché ne andava dell’autorevolezza dell’Ufftcio.

È anche vero, però, che, come puntualizzato da altri magistrati auditi dal C.S.M. (cfr. Natoli e Lo Forte), le simpatie politico-partitiche e le amicizie e frequentazioni personali del procuratore — al pari delle acquisizioni processuali su relazioni pericolose dell’onorevole D’Acquisto – erano da tempo un fatto notorio e certamente noto allo stesso Csm che tuttavia nel giugno del 1990, aveva conferito a Giammanco l’ufficio di capo della procura della Repubblica presso il tribunale di Palermo; così come a nessuno dei magistrati di quell’ufficio risultava che simpatie politiche o la dichiarata amicizia con l’onorevole D’Acquisto avesse fatto velo all’imparzialità del procuratore nella conduzione dell’Ufficio o di singole inchieste.

Quanto alla presunta frequentazione del D’Acquisto degli uffici della procura palermitano, dei magistrati che ne hanno riferito solo la dott.ssa Principato ha dichiarato di averlo visto almeno tre volte nella stanza del procuratore o, poche ore dopo che era stato ucciso Salvo Lima, dietro la sua porta in attesa.

Gli altri, o non lo hanno mai visto (cfr. Ingroia), oppure (cfr. Pignatone e Natoli) confermano di averlo visto in procura solo il giorno dell’omicidio Lima, mentre era in attesa di essere sentito come persona informata sui fatti, nel corso dei primi accertamenti investigativi per i quali si mobilitarono in forze i magistrati della procura palermitana.

Le tensioni con Giovanni Falcone

Ma ad alimentare sotterranee tensioni o “spaccature” all’interno della procura palermitano, esplose dopo la strage di via D’Amelio, erano la memoria, da parte di alcuni sostituti, o l’essere venuti ex post a conoscenza, per altri, dei contrasti che erano insorti nei rapporti tra il capo dell’ufficio Giammanco e il dottor Falcone, prima, e il dott. Borsellino poi.

E ad acuire il clima di tensione aveva contribuito anche la pubblicazione (il 24 giugno 1992, su “Il Sole 24 ore”) di ampi stralci dei c.d. “diari di Falcone”, in cui erano annotati, con puntuali rilievi critici da parte dell’autore, una serie di episodi nei quali si erano verificati espliciti dissensi del dott. Falcone rispetto alle strategie processuali concertate dal procuratore con altri sostituti, o si sollevavano dubbi sulla trasparenza o sull’opportunità di talune assegnazioni.

Anche se i dissidi con il procuratore non erano venuti fuori all’esterno dell’ufficio ed anzi risultavano smentiti da documenti ed esternazioni pubbliche, perché «Giovani Falcone era una persona che aveva un grande senso dello stato, dell‘immagine delle Istituzioni e quindi, se non vi era necessità assoluta, non era disposto a portare fuori i conflitti» (cfr. Scarpinato). Al fondo di quei contrasti v’era la constatazione o la convinzione da parte di Giovanni Falcone — del quale peraltro il dott. Giammanco aveva a suo tempo caldeggiato la nomina a procuratore aggiunto a Palermo — di essere stato progressivamente demansionato o ridimensionato rispetto al ruolo iniziale che aveva ricoperto quale delegato alle assegnazione dei procedimenti in materia di c.o., nonché supervisore o coordinatore di tutti i procedimenti per reati di associazione mafiosa e per reati in ipotesi connessi.

E alcuni dei magistrati auditi hanno rimarcato come non vi fosse alcun problema per il c.d. “ordinario”; ma per i procedimenti in cui si profilava il possibile coinvolgimento di esponenti politici, Falcone lamentava di essere stato bypassato.

Deve però convenirsi che gli stralci pubblicati dei diari di Falcone sono datati tutti ad un’epoca compresa tra novembre’91 e gennaio ‘92, e quindi non tengono conto né di chiarimenti o accomodamenti successivamente intervenuti anche nei rapporti tra lo stesso Falcone e gli altri colleghi chiamati in causa, né delle spiegazioni acquisite nel corso delle audizioni dei medesimi magistrati dinanzi al Csm (per le quali ovviamente si rinvia ai verbali acquisiti).

Così per il caso gladio, a proposito della soluzione di compromesso adottata, chiedendo, di concerto peraltro con il G.I la riunione degli atti al procedimento Insalaco, ancora pendente in fase di indagine preliminare (soluzione accettata da Falcone, se è vero che pure lui sottoscrisse la requisitoria per il processo sui delitti politici); o per taluni atti di indagine particolarmente delicati nell’ambito del procedimento per i delitti politici, assunti dai magistrati contitolari con Falcone all’insaputa di quest’ultimo (come l’escussione del Cardinale Pappalardo).

Ed ancora, per l’assegnazione del fascicolo relativo all’esposto anonimo per appalti truccati al comune di Partinico ad un pool di magistrati che non facevano parte della Dda e senza informarne Falcone; o per l’inopinata assegnazione — per volontà del procuratore — del procedimento per l’omicidio del colonnello Russo ad una collega giovane e che mai si era occupata di indagini e processi di c.o.; ed ancora, per l’assegnazione di un procedimento per presunti illeciti a carico di due carabinieri (sempre di Partinico) ad altra giovane collega, e sempre all’insaputa di Falcone (si trattava in effetti di un comune procedimento per falsificazione di assegni, senza ulteriori implicazioni: cfr. audizione della dott.ssa Randazzo).

Ciò non toglie che i rapporti tra Falcone e Giammanco si fossero incrinati, almeno nell’ultimo periodo di servizio del giudice ucciso quale procuratore Aggiunto (cfr. anche la testimonianza di Maria Falcone, verbale n.° 45 del 30 luglio 1992), e per dissensi profondi sul metodo di lavoro o sulle scelte organizzative o anche sulle strategie processuali, fino a convincere il dott. Falcone che non gli era più possibile svolgere il proprio lavoro, come lui intendeva farlo, finché fosse rimasto in quell’Ufficio: quasi una riedizione dello scontro che in passato aveva opposto lo stesso Falcone al dott. Meli, quando questi gli venne preferito a capo dell’Ufficio Istruzione.

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