Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Detto questo, deve però concedersi che, nei giorni e nelle settimane successive alla strage di Capaci, e fino a quell’ultima decade di giugno-primi di luglio cui può farsi risalire l’avvio sul piano operativo dell’iter esecutivo della strage di via D’Amelio, sono certamente avvenuti fatti e maturate circostanze che potrebbero avere vieppiù corroborato il convincimento di Riina e dei capi corleonesi a lui più vicini che non vi fossero motivi validi per procrastinare ancora la concreta esecuzione di una deliberazione di morte che era stata da tempo adottata nei riguardi del dott. Borsellino; e che anzi fosse il caso di procedervi senza ulteriore indugio.

S’è detto delle ripetute esternazioni, sia pure in ambienti ristretti e legati al circuito delle sue relazioni professionali, del suo interesse per l’indagine mafia e appalti, culminato con l’incontro del 25 giugno 1992 alla caserma Carini con Mori e De Donno (per organizzare il quale s’era adoperato il suo più stretto collaboratore dell’epoca, l’allora M.llo Canale, che poi sarà processato — e assolto — per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa).

Ma già era stato motivo di allarme per Cosa nostra il trasferimento del dott. Borsellino alla procura di Palermo, a partire da gennaio, con l’incarico di procuratore Aggiunto e l’immediato inserimento — che ne aveva costituito la ragione principale della domanda di trasferimento — nella Dda che era stata istituita con D.L: 20 novembre 1991, n. 367, conv. con modificazioni in L. 20 gennaio 1992, n. 8 (“norme di coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati di criminalità organizzata”): essendo le Direzioni Distrettuali Antimafia una sorta di pool di magistrati, previsto dalla legge e istituito presso le Procure della Repubblica aventi sede nei capoluoghi di distretto cui veniva attribuita in va esclusiva la competenza per i reati di c.o., dei quali quindi il dott. Borsellino non avrebbe più potuto occuparsi restando alla procura di Marsala.

E sebbene dal procuratore Giammanco egli avesse ricevuto la delega ad occuparsi solo dei procedimenti per reati di mafia commessi nei territori di Trapani e Marsala, competenza poi estesa anche al territorio di Agrigento e Sciacca (che meglio conosceva in ragione della sua pregressa attività come procuratore capo a Marsala) egli non aveva tardato ad imporsi come punto di riferimento per le indagini nel settore della criminalità organizzata, in ragione del prestigio e della competenza e delle conoscenze acquisite già come componente del pool che aveva istruito il maxi processo, sia all’interno dell’ufficio – soprattutto per i colleghi più giovani – che all’esterno.

La morte di Falcone, come già accennato, lo aveva automaticamente caricato, anche nell’immaginario collettivo, del ruolo di suo naturale erede nella lotta alla mafia. E lui stesso non aveva fatto mistero della sua determinazione a proseguirne l’opera, e a venire a capo della causale della sua uccisione, partendo proprio dai filoni d’indagine che avevano maggiormente assorbito l’attenzione e l’impegno di Giovanni Falcone negli ultimi periodi di servizio alla procura di Palermo, prima di trasferirsi al ministero di Grazia e Giustizia a Roma per andare a dirigere l’ufficio della direzione generale Affari penali.

L’erede di Giovanni Falcone

A questo fattore di sovraesposizione si aggiunse una sorta di investimento istituzionale sulla sua figura. Il 28 maggio ‘92, in occasione della presentazione dell’ultimo libro del sociologo Pino Arlacchi (La mafia imprenditrice) in una nota libreria di Roma, l’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti espresse il convincimento che Paolo Borsellino fosse il candidato più idoneo a ricoprire la carica di procuratore Nazionale Antimafia.

E il ministro della Giustizia Martelli fece anche di più, chiedendo al C.S.M. di riaprire i termini per la presentazione delle candidature a quell’incarico, per consentire la partecipazione al concorso di quei magistrati che, essendo ancora in vita Falcone, avevano ritenuto di non presentare domanda perché convinti che la candidatura di Falcone fosse la migliore.

Borsellino si affrettò a declinare l’incarico, ma lo fece con lettera privata — contro il parere di alcuni colleghi a Lui particolarmente vicino che gli avevano segnalato con viva preoccupazione il surplus di pericolo che poteva provenire da quella pubblica investitura e perciò gli avevano consigliato di rendere pubblico il suo rifiuto – lettera che però venne resa nota dallo stesso Scotti solo dopo la morte del magistrato.

Nel frattempo, in un crescendo che non sfuggì all’attenzione dei colleghi che gli erano più vicini, e compatibilmente con i ritmi frenetici di lavoro che si era imposto, il dott. Borsellino, nelle settimane successive alla barbara uccisione dell’amico e collega Falcone, in deroga al rigoroso riserbo cui si era in precedenza attenuto, non aveva lesinato esternazioni in pubblico sui temi della lotta alla mafia, denunciando, a partire dall’isolamento e dagli ostacoli frapposti anche all’interno dell’ambiente giudiziario che avevano amareggiato l’ultimo periodo di servizio di Falcone quale procuratore Aggiunto, le vischiosità e le connivenze annidate all’interno delle istituzioni.

Ne fanno fede le dichiarazioni rese nel corso dell’audizione dinanzi il Csm e versate in atti dalla dott.ssa Sabbatino, all’epoca magistrato in servizio alla procura di Palermo e legata da personale amicizia a Paolo Borsellino […] La stessa dott.ssa Sabbatino precisava però che Paolo Borsellino aveva cambiato bruscamente atteggiamento dopo che, sul giornale di Sicilia del 30 giugno 1992 erano state estrapolate alcune dichiarazioni che aveva reso nella precedente intervista a proposito dei contrasti insorti tra Falcone e Giammanco: forse proprio perché in quell’articolo, che, a partire dal titolo (“Non fu per i contrasti con Giammanco che Falcone andò via dalla procura”) dava risalto a quelle dichiarazioni, benché avessero impegnato una parte minima dell’intervista, era stato travisato il suo pensiero al riguardo; o forse perché sempre più assorbito dal lavoro e consapevole di avere i giorni contati, o perché timoroso di partecipare a eventi pubblici, per essere lui stesso una fonte di rischio per chi gli stesse vicino: “Fatto sta che da allora, Paolo, e dopo questa pubblicazione anche falsata dell‘intervista che avviene poi il 30 giugno, non interviene più da nessuna parte, nessun incontro, proprio cambia totalmente atteggiamento, a differenza del primo mese successivo alla strage di capaci, in cui era presente ovunque, lui approfittava anche di una commemorazione in una chiesa per parlare... ovunque, lui non parla più, in pubblico non dice più titilla e mi disse che quello era un momento particolare e che aveva in corso indagini delicate, quindi io, mi parlò di alcuni pentiti, siamo nei primi giorni di luglio...”.

Ma quel ritrarsi da esternazioni in pubblico poteva anche spiegarsi con la preoccupazione di non dare la stura a polemiche che avrebbero potuto danneggiare le indagini, che erano la cosa che più gli premeva in quel momento, e che registravano un’eccezionale intensificazione del suo impegno di lavoro: [...].

Le ultime interviste di Borsellino

Ma soprattutto, con interviste rilasciate ai giornali, o la partecipazione a eventi pubblici (almeno fino a quando non si inabissò, secondo il ricordo della dott.ssa Sabbatino nel lavoro di indagine), Paolo Borsellino aveva fatto appello alla coscienza dei cittadini, e al comune desiderio di libertà per sensibilizzare le forze sane della società civile a ribellarsi alla prepotenza mafiosa; e questo impegno, intensificatosi proprio nel mese di giugno, di pubblica di sensibilizzazione della collettività siciliana e nazionale sui terni della lotta alla mafia, ne aveva implementato la statura di figura iconica ed erede di Falcone nell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa.

Al contempo, egli aveva ripetutamente e pubblicamente manifestato il proposito di impegnarsi concretamente a fare luce sulle vere ragioni che avevano indotto Cosa nostra a progettare e attuare l’attentato di Capaci — come ricorda Giovanni Brusca, non occorrevano talpe o fonti confidenziali per venire a conoscenza di tale proposito, perché il dott. Borsellino lo gridava pubblicamente - dopo che era stato commesso un delitto come l’omicidio Lima, che, in una valutazione condivisa da Borsellino con Giovanni Falcone, aveva segnato la rottura violenta, e quindi carica di valenze strategiche, di un atavico e scellerato connubio tra l’organizzazione mafiosa e uno dei più potenti ed influenti esponenti politici siciliani, ancora accreditato del ruolo di leader della corrente andreottiana in Sicilia.

E se aveva rinunciato a chiedere di essere applicato alla procura della Repubblica di Caltanissetta per seguire direttamente le indagini sulla strage, già incardinate presso quell’Ufficio giudiziario, tuttavia, come puntualmente evidenziato dai giudice del “Borsellino ter”, «Borsellino aveva manifestato pubblicamente la propria volontà di collaborare a quell’inchiesta. riversando sui magistrati che ne erano titolari il cospicuo patrimonio di conoscenze che gli derivava sia dalla esperienza professionale che dalle confidenze raccolte da Falcone in occasione dei frequenti ed anche recenti incontri con lo stesso. Tale intento Borselino aveva, ad esempio, esternato in un’intervista al quotidiano “La Repubblica”, comunicando il proprio rammarico per non poter seguire direttamente l’indagine perché in ciò avrebbe “trovato un lenimento al mio dolore, così come era successo per l’omicidio del capitano Emanuele Basile” ed asserendo che sarebbe comunque andato a Caltanissetta “come testimone” per riferire al procuratore “fatti, episodi, circostanze, gli ultimi colloqui avuti con Falcone”».

Il discorso di Casa Professa

In alcune delle sentenze versate in atti sono riportati ampi stralci del toccante discorso pronunciato dal dott. Borsellino la sera del 25 giugno 1992 in occasione della commemorazione della morte di Falcone tenutasi all’atrio della Biblioteca Comunale (Casa Professa) a Palermo.

In tale occasione, egli tra l’altro ribadì la propria convinzione di essere in possesso di concreti elementi probatori che avrebbero potuto contribuire a fare luce sulla strage di Capaci; e di essere pronto a rappresentare, nella veste di testimone, alla competente A.g. non già ciò che pensava, ma ciò che sapeva sui fatti sottesi al tragico evento sfociato nella morte di Giovanni Falcone («In questo momento inoltre, oltre a magistrato, io sono testimone, sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza cli lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto.... degli elementi probatori che porto dentro di me, io debbo per prima cosa rappresentarli all’autorità giudiziaria che è l’unica in grado cli valutare quanto queste cose che io so, non che io penso, che io so, possono essere utili alla ricostruzione dell‘evento che pose fine alla vita di Giovanni Falcone...»).

Non serve spendere parole di commento per significare l’effetto di sovraesposizione prodotti da simili coraggiose esternazioni. Borsellino in pratica enunciava di essere a conoscenza di fatti specifici e in possesso quindi di concreti elementi probatori per fare luce sulla strage di Capaci; e che era pronto a metterli a disposizione dell’autorità giudiziaria nissena che stava conducendo l’indagine. Se ne inferiva inoltre che non era stato ancora sentito, a distanza di un mese dai fatti, dagli inquirenti; ma che era pronto e ansioso di farlo.

Era quindi altresì prevedibile, dopo quelle pubbliche esternazioni cui aveva fatto seguito un immediato e notevole risalto mediatico (v. articolo pubblicato su Repubblica del 27 giugno, dal titolo “L’atto di accusa di Borsellino”) che quanto prima sarebbe stato finalmente sentito da magistrati nisseni nella veste di persona informata sui fatti (in effetti, secondo quanto ebbe poi a confermare il dott. Giordano, pubblico ministero di Caltanissetta, il dott. Borsellino doveva essere sentito a inizio della settimana successiva al 19 luglio).

V’è poi traccia in atti di altre interviste ai giornali, non solo locali, (come quella pubblicata sulla Gazzetta per il Mezzogiorno il 3 luglio 1992, sugli scenari mafiosi in atto e l’ipotesi di una crescente anche se ancora latente conflittualità tra i due capi corleonesi, Riina e Provenzano, descritti come due pugili che si fronteggiano su un ring); dell’intervento nell’ambito di “Lezioni di mafia”, registrato presso il centro Rai di Palermo la mattina del 26 giugno e la contestuale intervista rilasciata al giornalista Antonio Prestifilippo, pubblicata su Il Mattino di Napoli (v. ancora audizione della dott.ssa Sabbatino dinanzi il Csm); ed ancora di altra intervista al giornalista Attilio Bolzoni pubblicata su il Venerdì di Repubblica, del 22 maggio, nella quale il magistrato si sofferma sulle peculiarità, legate al ruolo pervasivo della criminalità organizzata, che contraddistinguono, in Sicilia e nel Meridione in genere, i fenomeni di corruzione e concussione o comunque di uso spregiudicato del denaro pubblico che sono diffusi in tutto il territorio nazionale: peculiarità che ostacolano lo sviluppo delle indagini (“Ecco perché a Palermo è più difficile scoprire certi affari: perché incontriamo le stesse difficoltà investigative che troviamo quando indaghiamo su fatti di mafia”).

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