Quello che la mafia teme e non può accettare è che lo Stato sequestri e confischi la sua “roba”. Ed è proprio facendo leva su questo che Giovanni Falcone iniziò un’indagine che non aveva precedenti. La nuova normativa permetteva di seguire le tracce lasciate dal denaro acquisito illecitamente e, atto vieppiù rivoluzionario, di mettere mano alla documentazione bancaria
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore
Fu questo tipo di visione che, declinata dal punto di vista normativo, portò al varo della legge Rognoni-La Torre, che diede un forte impulso a questo tipo di indagini.
Anche in questo caso, come spesso per le normative antimafia, la legge è stata varata in risposta a due gravi attentati: l’uccisione di Pio La Torre (30 aprile 1982), segretario regionale del Pci siciliano, e del generale Carlo Alberto dalla Chiesa (3 settembre 1982), prefetto di Palermo inviato in Sicilia subito dopo l’omicidio del politico comunista.
La legge, varata il 13 settembre 1982, introdusse il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso, il 416 bis del codice penale, e dispose importanti misure di prevenzione patrimoniali come il sequestro e la confisca dei beni.
I mafiosi andavano attaccati nel loro punto debole, “la roba”, cioè il denaro, i loro patrimoni. Perché un appartenente a Cosa nostra mette in conto che potrà essere arrestato e potrà trascorrere anni in carcere, rientra nei rischi della vita che ha scelto e può servire, nel suo mondo capovolto, anche ad acquisire prestigio e “promozioni” all’interno dell’organizzazione. Ma quello che teme e non può accettare è che lo Stato sequestri e confischi la sua “roba”. Questo no. Ed è proprio facendo leva su questo che Giovanni Falcone iniziò un’indagine che non aveva precedenti.
La nuova normativa permetteva di seguire le tracce lasciate dal denaro acquisito illecitamente e, atto vieppiù rivoluzionario, di mettere mano alla documentazione bancaria.
Il sistema del credito, infatti, costituisce uno dei nodi più importanti del riciclaggio di denaro sporco, ovvero del sistema per rendere puliti i capitali che provengono invece da attività illegali. E gli accertamenti sono indispensabili per capire quali modalità di finanziamenti siano stati utilizzati dalle cosche, incluso l’utilizzo di programmi di pubblico intervento nell’economia o di sostegno alle imprese che siano stati dirottati verso le casse di Cosa nostra.
Attraverso questo tipo di indagini, ieri e ancora di più oggi, si cerca di ricostruire dal punto di vista dinamico la storia di un patrimonio, la sua formazione ed evoluzione nel tempo. A ciò, man mano, si è affiancata un’attività inquirente che mira a conoscere il contesto socio-economico del territorio e quindi la realtà in cui operano i mafiosi.
Uno dei vantaggi principali, soprattutto pensando all’epoca pionieristica di certe inchieste, fu la possibilità di trovare connessioni fino ad allora impensabili tra le persone.
Finalmente la polizia giudiziaria ebbe la delega per accedere ai conti bancari anche senza l’autorizzazione del magistrato e senza che gli istituti di credito potessero negare l’accesso. Lo sviluppo di questo tipo di investigazioni portò inoltre, come felice conseguenza, l’avvio della stretta
e proficua collaborazione con la Guardia di Finanza.
Solo per fare un esempio del lavoro svolto, nel volume 38 dell’ordinanza-sentenza dell’8 novembre 1985 si ricostruiscono i movimenti bancari con i quali Michele Greco ha fatto pervenire un assegno di tre milioni di lire a tale Bonaccorso Maria che lo ha girato a Greco Ignazio che, a sua volta, lo ha negoziato, ha prelevato venti milioni all’ordine della Olimar Costruzioni (sono elencati anche i soci) e poi ha tratto altri due assegni per altre persone.
Tutti questi movimenti, alcuni molto più complessi, interessarono ben 707 soggetti, ovvero tutti gli imputati della più volte menzionata ordinanza-sentenza.
Nasceva così il “metodo Falcone”.
Ma un giudice istruttore da solo non era in condizione di esaminare migliaia di documenti bancari, era necessario allestire una squadra, un pool di magistrati dediti esclusivamente ai reati di mafia. Furono queste alcune delle riflessioni che Giovanni condivise con Rocco Chinnici, il quale diede il via all’embrione del pool antimafia, poi formalizzato da Antonino Caponnetto prendendo spunto dalla lotta all’eversione.
Dal punto di vista procedurale, infatti, la figura del pool non era contemplata, visto che la regola parla di giudice monocratico. Gian Carlo Caselli e Ferdinando Imposimato, magistrati in servizio a Torino e Milano rispettivamente, impegnati in indagini sul terrorismo, avevano però già battuto questa strada. Con i loro consigli furono di aiuto a Caponnetto, il quale ricorse a un escamotage, come già evidenziato in precedenza, che gli permise di fare funzionare il pool. Peraltro, quell’espediente procedimentale aveva già resistito al vaglio della Corte di Cassazione, che aveva respinto il ricorso di alcuni terroristi.
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