Nel 2022 il segretario generale delle Nazioni unite António Guterres lanciava la campagna “Early Warning for All”, il piano globale per dotare ogni paese del mondo di un sistema di allerta per eventi climatici estremi entro il 2027. «Essere avvisati in tempo salva vite umane», aveva detto Guterres.

I dati: negli ultimi cinquant’anni secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale ci sono stati più di 11mila disastri naturali, la loro frequenza e la loro intensità è aumentata a causa del riscaldamento globale, ma la loro mortalità è diminuita. Negli anni Settanta, gli eventi meteo estremi facevano 50mila vittime all’anno, oggi l’ordine delle perdite è intorno alle 20mila vittime: una delle ragioni è proprio la diffusione dei sistemi di early warning.

Oggi però il 40 per cento della popolazione mondiale affronta ancora alluvioni, cicloni o incendi senza essere avvisato in anticipo e quindi senza potersi preparare. L’epicentro di questa vulnerabilità è l’Africa, continente dove la popolazione esposta ad alluvioni aumenterà di quattro volte entro la fine di questo secolo. I recenti disastri come il crollo delle dighe a Derna, in Libia (12mila morti nel 2023) o la catastrofica stagione delle piogge in Africa orientale di quest’anno (oltre 400 vittime) dimostrano quanto sia importante un lavoro di adattamento al nuovo clima che passi anche attraverso la preparazione.

Qualcosa però sta cambiando, anche in Africa: due anni dopo l’iniziativa Onu sta nascendo una rete di sale controllo per le allerte meteo, che monitorano l’andamento atmosferico, gli incendi, l’arrivo di cicloni, le ondate di calore, le prospettive per i raccolti, le siccità, e sono in grado di emettere bollettini per i diversi paesi coperti.

La prima è stata quella continentale, ad Addis Abeba, in Etiopia, poi sono arrivate quelle su scala regionale, cioè multi-paese: in Nigeria, Camerun, Mozambico e Kenya, e si è aggiunta un’altra che copre tutto il continente in Niger. L’ultima arrivata è stata inaugurata a giugno a Dodoma, la capitale della Tanzania, è la prima che sia dedicata al monitoraggio di un solo paese.

Un modello

In queste situation room, oltre a quelli dell’Onu e dell’Unione Africana, ci sono anche due loghi italiani: quello dell’Aics, l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, e quello della Fondazione Cima, il centro di conoscenza nato nel 2007 per mettere a sistema l’esperienza della Protezione civile italiana. Per Fondazione Cima i progetti africani partono già nel 2018.

Quattro anni prima del piano Early Warning for All di Guterres, l’agenzia Onu per il rischio disastri (Undrr) aveva scelto proprio la Protezione civile italiana come modello per iniziare a tutelare i paesi dell’Africa dalle nuove minacce climatiche. Quel sistema italiano fatto di monitoraggio, allerte meteo, bollettini è stato plasmato nei decenni sulla vulnerabilità del nostro territorio ed è diventato una specie di eccellenza esportabile nel mondo, come la mozzarella o il Grana Padano. «Gli italiani hanno dovuto imparare a difendersi da frane, alluvioni, allagamenti, e ora insegnano quel metodo nel mondo, in particolare lì dove serve di più, in Africa», spiega Marco Riccardo Rusconi, direttore di Aics.

Quel patrimonio di conoscenza è custodito ed elaborato proprio da Fondazione Cima, nella sua sede dentro il campus universitario di Savona, dove quindici anni fa sono nati i sistemi di allertamento italiano per il rischio alluvionale e da incendi boschivi, in uso ancora oggi. Fondazione Cima ha inventato il software open source alla base di tutto il progetto africano. Ha un acronimo lunghissimo e illeggibile, myDEWETRA, ed è un sistema integrato per la previsione dei rischi naturali. In sostanza è un’ecografia globale che monitora il meteo di tutta la Terra, calcolando in tempo reale i rischi per le popolazione in base a una lunga serie di parametri, non solo fisici o atmosferici.

«L’aspetto tecnologico è quasi quello meno importante del progetto, il livello decisivo è saper costruire reti di conoscenza, partendo dalle storie e dalle situazioni locali, insegnando a tutti gli attori a stare intorno allo stesso tavolo», spiega Luca Ferraris, presidente di Fondazione Cima, una specie di ingegnere globetrotter che sale su un aereo dopo l’altro per portare avanti questo piano. «La Protezione civile non si fa solo con le scienze dure e fisiche, la meteorologia, l’idrologia, l’ingegneria. La gestione dell’incertezza e del rischio è un lavoro innanzitutto culturale. Lo è stato per noi in Italia e lo è anche in Africa».

Gli effetti

Fondazione Cima non mette solo a punto la sala di controllo e il manuale per farla funzionare: fa anche costantemente workshop, esercitazioni, corsi: la protezione civile è come un software che va sempre aggiornato. Come spiega Kamal Kishore, capo dell’Agenzia rischi dell’ONU, questo lavoro di diffusione dell’early warning è un esercizio di complessità. «L’allerta contro gli eventi estremi da sola non basta, deve sapersi trasformare in azione, per farlo dobbiamo conoscere non solo la realtà fisica dei paesi, ma anche quella sociale, quella economica, quante persone vivono in un’area, come sono fatte le case, qual è il modo migliore per diffondere il messaggio, che deve essere non solo rapido e concreto, ma anche comprensibile». La situation room è solo un tassello della filiera di preparazione sociale al nuovo clima.

Le alluvioni fanno ancora stragi evitabili perché manca l’infrastruttura sociale a valle, spiegano dalla Croce Rossa di Nairobi. Durante le alluvioni in Kenya sono stati mandati 35 milioni di sms alla popolazione, ma alcune aree erano irraggiungibili dal segnale telefonico oppure socialmente diffidenti rispetto ai messaggi del governo. Ci sono situazioni (come l’arrivo di una siccità) in cui si ha il tempo di lavorare con le comunità sul campo, ce ne sono altre in cui il fattore tempo non lascia margine di azione, l’onda di piena sale o la diga cede prima dell’arrivo di qualsiasi emissario governativo. È un lavoro di preparazione lungo, le sale controllo e le allerte meteo sono necessarie ma non sufficienti.

«È la principale lezione che abbiamo appreso lavorando in Africa», conferma Ferraris, «Che non si può fare protezione civile senza coinvolgere le comunità, calando le azioni dall’alto. Questo è un lavoro che farà vedere i suoi veri effetti sulla scala dei decenni».

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