In un’inchiesta internazionale a puntate, abbiamo raccontato l’impatto sulla popolazione (malattie respiratorie e della pelle, tumori e nascite premature) del gas flaring, la pratica con cui il metano in eccesso nei giacimenti e nelle infrastrutture viene bruciato, generando emissioni e composti dannosi per la salute. Cosa si può fare per migliorare la situazione? Ne abbiamo parlato con uno studioso della transizione energetica del Consiglio nazionale delle ricerche
Nicola Armaroli è un chimico, dirigente di ricerca del Consiglio nazionale delle ricerche e studioso della transizione energetica. Lo abbiamo intervistato per capire perché è difficile ridurre il gas flaring e che cosa si potrebbe fare per migliorare la situazione, alla luce di tutto quello che abbiamo descritto nella nostra inchiesta internazionale a puntate, realizzata insieme ai consorzi giornalistici Eif e Eic.
Innanzitutto, quali sono i danni creati dalla combustione in torcia del gas?
Il gas bruciato produce ossidi di azoto che, oltre ad essere di per sé molto dannosi per l’apparato respiratorio, sono precursori di particolato secondario. Poi va ricordato che il petrolio che esce dal sottosuolo è una miscela complessa, che contiene innumerevoli molecole dannose per gli organismi viventi. Il gas “indesiderato” che esce col petrolio non è da meno, ma non si analizza in dettaglio cosa contiene. Quando viene bruciato in torcia, capita che si formi – tra le altre cose – il cosiddetto carbon soot, cioè quella fuliggine che si vede a occhio nudo: è molto dannosa per la salute e contribuisce anche al riscaldamento globale.
Perché viene bruciato ancora oggi tanto gas? Si potrebbe usare quel gas per scopi utili?
Bruciare il gas in torcia è di solito meglio che liberarlo in atmosfera, cioè fare il cosiddetto venting, che rilascerebbe in atmosfera enormi quantità di metano, un gas serra decine di volte più potente della CO2 generata dal flaring. Detto questo, sicuramente c’è chi preferisce bruciarlo invece che fare investimenti per utilizzarlo, cosa che purtroppo non sempre è fattibile. L'estrazione del petrolio, principale causa del flaring, avviene in posti sempre più remoti, dove è meno facile trovare utilizzatori. Spesso poi non ci sono le infrastrutture. Ad esempio, un’azienda potrebbe costruire una centrale elettrica alimentata dal gas di flaring, ma se poi nei villaggi vicini non c'è la rete elettrica, diventa inutile. Flaring e sottosviluppo vanno quasi sempre a braccetto.
Nella nostra inchiesta abbiamo notato che ogni azienda comunica i dati come vuole: c'è chi pubblica solo dati sul gas flaring di routine, chi sul gas flaring in generale, chi solo sulla CO2 equivalente senza però spiegare qual è il fattore di conversione utilizzato. Cosa ne pensa?
L'unica arma a disposizione sarebbe quella regolatoria. Purtroppo però non esistono regole e standard internazionali: ogni Paese fa come vuole. La questione peraltro non riguarda solo il flaring: le compagnie petrolifere dichiarano sempre quello che vogliono, a partire dalla loro riserve di idrocarburi, che ne qualificano il valore in Borsa. Il problema è che spesso queste aziende sono più influenti del legislatore nazionale, oppure del regolatore internazionale che in questo caso non c'è, e che invece dovrebbe esserci.
La mancanza di un'autorità pubblica internazionale che effetti comporta?
Si stima che globalmente il gas flaring provochi l’emissione equivalente di circa 350 milioni di tonnellate di CO2 l'anno: più o meno quanto emette l'Italia. Il flaring ha quindi, da decenni, un impatto non trascurabile sulle emissioni climalteranti. Ha inoltre un impatto sulla salute e sulle tasche delle persone, soprattutto quelle più deboli. È difficile infatti trovare quartieri residenziali eleganti nei pressi degli impianti estrattivi o industriali che fanno flaring.
Quale vantaggio può avere una compagnia petrolifera nel dichiarare meno gas flaring di quello che effettivamente produce?
Innanzitutto economico. Se una compagnia dichiara meno emissioni di quelle reali - e tutto sommato non è difficile, visto che non ci sono regole, ma solo qualche standard da rispettare su base volontaria – pagherà meno per compensare quelle emissioni. Senza un'autorità pubblica che detti le regole, vigili sul loro rispetto e sanzioni chi bara, qualsiasi mercato diventa una giungla. Vale per il gas flaring, ma in generale per tutto il sistema del trading delle emissioni.
Perché secondo lei non si mette mano a questa giungla?
Perché alle compagnie non conviene. Le grandi aziende petrolifere dettano da decenni le politiche energetiche dei governi. Accade anche in Italia. Queste aziende hanno un potere economico enorme e talvolta corruttivo. La pressione che possono esercitare nei confronti di una politica sempre più debole e screditata, è enorme. Questo è il problema di fondo da affrontare.
La nostra inchiesta a puntate
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