«Una volta, qui, c’erano i prati». Capita spesso di sentire questa frase visitando le aree forestali colpite dalla tempesta Vaia. Chi ha un po’ di occhio sul territorio la capisce al volo questa affermazione, attraverso un’arte sempre più rara: quella di saper leggere il paesaggio.

Accade magari che passeggiando in un bosco fitto ci si trovi di fronte, all’improvviso, a un vecchio fienile dai muri pericolanti, oppure a muretti a secco ormai avvolti dalla vegetazione. Succede che osservando un panorama si notino particolari sfumature di colore delle chiome, altezze e posizioni degli alberi diverse, magari proprio nelle aree meno ripide e più comode da raggiungere.

Una volta, in quei luoghi, c’erano non soltanto i prati, ma anche i pascoli, addirittura i campi coltivati. È la fotografia di uno dei cambiamenti più significativi e al tempo stesso silenziosi e ignorati che il nostro paese abbia vissuto nell’ultimo secolo.

Dove le colline e le montagne sono state abbandonate, dove la gente è andata via sull’onda del boom economico, spinta dalla ricerca di lavori meno faticosi, più redditizi, di una vita diversa, è ritornato il proprietario di quei terreni conquistati col sudore di milioni di esistenze. È tornato il bosco, un seme dopo l’altro, prima arbusti, poi alberelli, infine intere foreste.

L’inventario dei boschi

Copyrighht 2020 The Associated Press

A dare i numeri di questo cambiamento epocale, che è paesaggistico, ma anche antropologico, economico e ovviamente ambientale, sono gli Inventari forestali, strumenti fondamentali per conoscere il «patrimonio verde» di una nazione. In Italia il primo esempio di inventariazione dei boschi risale al 1936, quando all’allora Milizia forestale fu commissionata la prima Carta Forestale del Regno d’Italia.

Recentemente un gruppo di ricercatori ha digitalizzato questa carta ricavando la superficie forestale italiana tra le due guerre mondiali: 6,3 milioni di ettari, ovvero il 20 per cento circa del territorio. Pochi giorni fa, dai Carabinieri forestali e dal Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria), sono stati presentati i risultati del nuovo Inventario nazionale delle foreste e dei serbatoi forestali di Carbonio (Infc), riferito al 2015. In Italia si contano oggi ben 11 milioni di ettari, cioè il 36,7 per cento del territorio nazionale.

Anche se la carta del 1936 e l’inventario forestale odierno non sono esattamente confrontabili, si può comunque affermare che in ottant’anni il bosco italiano è cresciuto di oltre il 70 per cento, al ritmo impressionante di 230 campi da calcio al giorno. Oltre all’aumento della superficie forestale, l’Infc 2015 mostra anche una crescita di consistenza dei nostri boschi: di volume e quindi di carbonio organico stoccato.

L’analisi dell’espansione boschiva

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Questo incremento di superficie e di consistenza delle foreste italiane è da considerarsi un bene o un male? Tralasciando tanti discorsi che sarebbero importanti da fare sul passato e sul futuro delle aree interne, possiamo dire che certamente, in termini generali, è un bene. Più bosco significa maggiore assorbimento di carbonio, aspetto fondamentale per il contrasto alla crisi climatica ma anche, potenzialmente, più servizi ecosistemici: più legno, più funghi e frutti spontanei, più protezione dei versanti e delle infrastrutture, più acqua potabile, più aree idonee al nostro tempo libero.

Anche più biodiversità? Sì e no, perché la perdita di aree aperte è un problema enorme per alcune specie, anche di grande interesse conservazionistico. Il tema vero, però, è un altro: se l’avere più bosco è in generale una cosa buona, questo rappresenta, al tempo stesso, una sfida enorme, perché significa più responsabilità. È venuto il tempo per il nostro Paese di capire davvero cosa vuole fare di questo patrimonio immenso, un terzo del territorio nazionale.

L’Infc 2015 su questo tema porta un dato molto meno positivo: solo il 15 per cento delle foreste italiane è sottoposto a un piano di gestione forestale. Significa che nell’85 per cento del territorio boscato o non si fa nulla oppure si interviene ma senza una visione di lungo termine, in assenza di una programmazione strategica. La pianificazione forestale serve infatti a conoscere nel dettaglio le aree forestali e soprattutto a fare scelte gestionali nell’orizzonte della sostenibilità. Serve a decidere dove e come valorizzare uno o più servizi ecosistemici, garantendo anche per le generazioni future di poterne godere.

Se prendiamo ad esempio il legno, una materia prima rinnovabile fondamentale per sostituire materie prime di origine fossile, si scopre un paradosso. Come ci confermano anche i dati Infc 2015, i boschi crescono ma il prelievo di legno rimane basso, molto più basso della media europea. Al tempo stesso, i livelli di importazione di legno dall’estero sono altissimi, con il rischio di incrementare deforestazione e conflitti sociali in aree povere del mondo. Pianificando di più e meglio, e favorendo in questo processo la partecipazione degli abitanti dei territori, si potrebbe incrementare la produzione di legname di qualità per il futuro e aumentare il prelievo, in aree idonee, nel presente, garantendo la rinnovazione del bosco.

Al tempo stesso, si potrebbe decidere di tutelare maggiormente altre aree, magari interessanti per alcuni particolari aspetti ambientali. In poche parole, si avrebbe l’opportunità di scegliere in modo attivo, e non passivamente, il presente ed il futuro di una fetta importante ed enorme d’Italia.

È questione di decisioni

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Fare queste scelte non solo è utile per valorizzare un patrimonio immenso, ma è anche urgente nel contesto della crisi climatica, che impatta in modo diretto sul patrimonio forestale nazionale. La tempesta Vaia è stato l’evento che più ha colpito l’opinione pubblica, ma non sono da dimenticare la siccità, le pullulazioni di insetti e, soprattutto, gli incendi, che distruggono ecosistemi, azzerano il valore dei boschi e ributtano in atmosfera enormi quantità di CO2.

In particolari annate, dove le estati sono caratterizzate da siccità e ondate di calore, come quella appena conclusa, gli incendi possono diventare enormi e indomabili. I nostri sistemi antincendio, molto efficienti solitamente a contenere la maggior parte dei roghi, sono messi in crisi da quelli che nel resto del mondo vengono chiamati «megafire». I dati Effis - il sistema informativo europeo sugli incendi, parlano di circa 170mila ettari andati a fuoco in Italia solo quest’anno, mostrando il nostro Paese come il più colpito d’Europa da questa calamità.

In questo senso la pianificazione e la gestione forestale sostenibile appaiono ancora più essenziali. Nelle aree a maggior rischio diventa urgente realizzare interventi di prevenzione. È l’unica arma che abbiamo per rendere il territorio, nel suo complesso, più resiliente. E la prevenzione si fa investendo sulle infrastrutture, sulla selvicoltura e anche sul mantenimento di un tessuto socio-economico locale, perché avere territori vivi, dove c’è agricoltura, gestione forestale, ma anche turismo, è essenziale.

I grandi incendi sono spesso figli di abbandono e di crisi sociali. I paesaggi più resilienti derivano invece da tessuti socio-economici attivi e vitali. È un patrimonio enorme quello forestale nazionale, che va fatto tornare al centro dell’attenzione, che va pianificato e gestito, per valorizzarlo e tutelarlo, per «coltivare e custodire» come è scritto nel Libro della Genesi. Dalle coste e dalle città, dove la popolazione nazionale da decenni si sta ammassando, occorre volgere lo sguardo a monte, là dove cento anni fa c’erano i prati. Lo devono fare i politici, nonostante i pochi voti che offre la montagna, così come i cittadini. Oggi lassù ci sono i boschi: valorizzarli e prendercene cura è una responsabilità nazionale.

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