- La Cop27 ha portato il risultato storico della creazione di un fondo per i danni e le perdite, ma ha anche garantito altro futuro ai combustibili fossili, sottraendone alla stabilità del clima
- Cop27 è la vittoria dei paesi in via di sviluppo e della loro richiesta di declinare il problema del clima al presente, ma anche dei lobbisti e dei paesi produttori di petrolio e di gas.
- Le Cop sono uno strumento unico e insostituibile ma hanno bisogno di innovazione politica per tornare a essere efficaci
La Cop27 di Sharm el-Sheikh, in Egitto, doveva chiudersi la sera del venerdì e si è invece conclusa appena prima dell’alba di domenica 20 novembre, dopo uno dei negoziati più sofferti e complessi di sempre in una conferenza delle parti dell’Onu sui cambiamenti climatici.
Nemmeno per arrivare a firmare l’accordo di Parigi c’era voluto così tanto tempo: è stata la seconda Cop più lunga delle ventisette che si sono tenute finora, si è chiusa col buio, decine di ore di sonno perse, i delegati e gli osservatori con gli occhi gonfi di stanchezza, una decisione storica di giustizia climatica presa ma nessun reale avanzamento nella lotta alle emissioni. Con lo Sharm el-Sheikh Implementation Plan sigillato alla fine di Cop27 i paesi vulnerabili hanno ottenuto risorse per navigare la tempesta in atto, ma i combustibili fossili hanno guadagnato futuro e la prospettiva di una vita sostenibile sulla Terra ne ha perso.
Il contesto
Due eventi di contesto hanno determinato lo scenario in cui si è svolto il negoziato di Cop27: l’aggressione russa in Ucraina e il disastro del monsone in Pakistan. La prima ha causato la sfiducia sulla possibilità di fare nuovi passi avanti sulla decarbonizzazione rispetto al Glasgow Climate Pact del 2021, che conteneva solo il phase down, cioè riduzione graduale e non rinuncia, del carbone come fonte di energia, e progressiva eliminazione dei sussidi pubblici inefficienti alle altre fonti fossili.
Il rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia, uscito a poche settimane dall’inizio dei lavori a Sharm el-Sheikh, aveva provato a contrastare questa sfiducia con la logica dei numeri: secondo la Iea i combustibili fossili sono vicini al picco, ma i governi riuniti alla Cop27 non hanno voluto prenderne atto. I 30 miliardi di dollari di danni e i milioni di sfollati del Pakistan invece hanno convinto i paesi vulnerabili a smettere di aspettare le promesse di mitigazione futura dei grandi paesi emettitori, a scegliere di concentrarsi sul presente e a fare fronte compatto per ottenere la creazione di un fondo per compensare i danni e le perdite causati da disastri come questo.
Il risultato è che le forze negoziali dei paesi e della società civile (che a Cop è fondamentale) si sono spostate dai combustibili fossili al loss and damage e l’esito finale è la fotografia di questa scelta. A Sharm la paura del presente ha vinto sulla speranza del futuro.
Il difficile viene ora
La creazione di un fondo per i danni e le perdite è il risultato di Cop27 che ci porteremo avanti per decenni, che influenzerà i rapporti tra i paesi e i blocchi e l’intero impianto finanziario globale di risposta alla crisi climatica.
Fino a Sharm el-Sheikh le uniche due dimensioni di aiuto finanziario accettate dai paesi industrializzati erano risorse per la mitigazione (le transizioni energetiche) e per l’adattamento (nuove infrastrutture resilienti ai cambiamenti climatici). Il fondo crea una terza gamba: risorse non per prepararsi al futuro ma per reagire al presente dei disastri climatici. I dettagli sono ancora vaghi: Cop27 ha istituito un percorso di due anni per chiarirli e un comitato transitorio per lavorarci.
La timeline prevede le decisioni sulle regole d’ingaggio entro Cop28 del 2023 a Dubai e la partenza operativa del fondo entro Cop29 del 2024 (probabilmente in Bulgaria). C’è da capire chi sono i paesi che riceveranno questi fondi e chi sono i paesi che dovranno metterceli: entrambi i punti hanno rischiato di spaccare il negoziato e per questo sono stati rimandati a decisioni future.
I paesi ricchi vogliono una platea ristretta di riceventi e una ampia di donatori. Sui riceventi il compromesso temporaneo è stato trovato nella formula di «paesi in via di sviluppo, specialmente quelli particolarmente vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico». Non è ancora chiaro se saranno ammessi grandi economie emergenti ma ecologicamente fragili, come Nigeria, Filippine, Kenya o lo stesso Pakistan.
Sui donatori il grande tema è: per quanto ancora la Cina potrà chiamarsi fuori da questi obblighi, nella sua posizione di primo paese per emissioni al presente e di secondo per emissioni storiche? Sarà una delle battaglie del prossimo anno: se la lista dei donatori si baserà sulla fotografia fatta dalla Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici, scattata nel 1992, la Cina continuerà a non avere obblighi. Se la lista si baserà sull’accordo di Parigi del 2015, la Cina dovrà pagare la sua quota.
Lo stallo è anche geopolitico: i paesi in via di sviluppo alle Cop negoziano in un variegato gruppo chiamato G77 che viene condotto proprio dalla Cina e al suo inviato per il clima Xie Zhenhua, e in Egitto hanno dimostrato di essere pronti a tutto per pagare questo debito di riconoscenza.
In questo contesto di variabili da definire, l’unica certezza è che presto i danni e le perdite da compensare con questo fondo saranno un’enormità: uno studio di due esperti di economia del clima del Politecnico di Milano (Massimo Tavoni e Pietro Andreoni) quantifica in 400 miliardi di dollari l’anno. Per ora si parla di finanza pubblica, ma sul piatto ci sono diverse proposte, come quella di Barbados, di coinvolgere le multinazionali dei combustibili fossili con una tassa sui profitti del 10 per cento. A Sharm el-Sheikh il negoziato è stato dilaniato dalla creazione dalla cornice dello strumento ma, se possibile, mettersi d’accordo sui suoi contenuti sarà ancora più difficile.
Obiettivo senza strumenti
Non sappiamo come sarebbe andata Cop27 se non fosse arrivato l’incontro tra i presidenti di Stati Uniti e Cina al G20 di Bali, ma per tutta la prima settimana a Sharm el-Sheikh si era discusso apertamente di rinunciare all’obiettivo chiave di tutto il processo: contenere l’aumento delle temperature rispetto all’era pre-industriale entro 1.5°C (oggi siamo tra 1.1°C e 1.2°C). Sarebbe stata una resa totale. Lo stimolo però è arrivato dal comunicato ufficiale venuto da oriente e almeno la soglia minima della decenza climatica è stata salvata.
Il problema è che Cop27 stabilisce questo obiettivo in linea di principio, come se fosse un auspicio morale, ma senza offrire nessuno strumento politico o giuridico per arrivarci.
Le misure incisive, richieste dai paesi più vulnerabili, ma anche dall’Unione europea (e, per motivi diversi, dall’India), sarebbero state picco concordato di tutti combustibili fossili alla metà di questo decennio e la loro graduale riduzione (phase down). Niente di tutto questo è entrato nella decisione finale.
Era anzi chiaro fin dall’inizio che sarebbe stato difficile anche proteggere la fragile trincea scavata dalla Cop26 di Glasgow. La Cop27 ci è riuscita, ma nel contesto di crisi climatica attuale è difficile presentare lo stallo a quanto già deciso un anno prima come una vittoria.
Vince il gas
Volendo cercare una scintilla di ottimismo, nello Sharm el-Sheikh Implementation Plan per la prima volta il testo finale di una Cop menziona le fonti rinnovabili di energia. L’ambiguità di questo percorso però viene ribadita dal fatto che, accanto alle rinnovabili, il testo finale cita anche «fonti di energia a basse emissioni», una formula apparentemente neutra che apre una scappatoia a un contenuto tutt’altro che neutro: il gas (e, secondo altre letture, anche il nucleare).
I paesi sono stati inoltre incoraggiati ad aggiornare i propri Ndc, i contributi nazionali: sono il pilastro del meccanismo dell’accordo di Parigi, sono i piani di riduzione delle emissioni che ogni paese è tenuto a presentare, aggiornare e rendere di volta in volta più ambiziosi. L’aggiornamento verso l’alto procede sempre più a rilento: prima di Cop27 solo 28 su 198 lo avevano fatto, la dimostrazione che la maggior parte delle economie mondiali ha usato il pretesto della guerra per rallentare la propria spinta verso un clima più stabile.
Chi ha vinto
A Cop27 hanno vinto innanzitutto i paesi in via di sviluppo, ed è una vittoria non solo finanziaria, perché avranno il loro fondo danni e perdite, ma anche politica e di strategia: hanno imposto la visione che era scritta all’ingresso del padiglione del paese simbolo di questa edizione: «Quello che succede in Pakistan non resterà in Pakistan». La crisi climatica non è più quella del 1992, quando iniziò il percorso delle Cop e il riscaldamento globale era un problema futuro da prevenire. Nel 2022 è un problema presente da navigare, soprattutto nel sud globale, e le decisioni alla Cop27 sono state prese di conseguenza.
Però hanno vinto anche i paesi produttori di combustibili fossili, facilitati da oltre 600 lobbisti del settore e guidati dall’Arabia Saudita, i cui delegati hanno addirittura provato a far passare l’idea che si potesse discutere di clima senza parlare di fonti di energia («Come discutere di economia senza parlare di soldi», ha commentato Climate Action Network).
E ha vinto l’Egitto: al-Sisi ha usato il vertice per fare incontri bilaterali con tutti i grandi della Terra e per posizionarsi come grande potenza regionale, ha superato indenne le proteste degli attivisti per i 60mila prigionieri politici, passerà alla storia come il leader che ha portato il fondo danni e perdite ai paesi africani e nel frattempo ha stretto una decina di nuovi accordi sul gas.
Chi ha perso
L’Europa e gli Stati Uniti escono più deboli da Cop27. Il Green Deal della Commissione e l’Inflation Reduction Act di Biden sono i piani di transizione più avanzati al mondo, ma ai due blocchi non viene più riconosciuta né leadership né credibilità, perché hanno ancora troppi interessi nei combustibili fossili, perché nella crisi energetica hanno rimesso nel sistema il carbone, perché non si sono mostrate in grado di mantenere le promesse finanziarie, per la fragilità generale delle democrazie.
La frase che gli americani continuano a sentirsi rivolgere alla Cop è: «E se torna Trump e uscite di nuovo dall’accordo di Parigi?». Timmermans, capo negoziatore per l’Europa, uscì sconfitto dalla Cop26 con il colpo finale dell’India sul carbone, che trasformò «rinuncia» in «riduzione», ed esce sconfitto da Cop27: aveva accettato il fondo danni e perdite in cambio di un impegno più incisivo sulla mitigazione, che non ha però avuto. Esce più debole anche l’Onu: l’enfasi di cui fa grande uso il segretario generale Guterres fa presa sulla società civile, ma non riesce a trasmettere un senso di urgenza che permetta ai paesi di fare l’unica cosa richiesta dal processo, cioè cooperare. Il negoziato multilaterale è in una crisi di sfiducia reciproca dalla quale non si vede oggi come possa uscire in tempo per la prossima Cop.
Un vuoto a forma di Italia
Non c’è propaganda che tenga sulla partecipazione italiana a Cop27: il nostro paese è stato invisibile e irrilevante, destinato a subire e non partecipare a qualunque decisione sia stata presa o non presa.
Il discorso di Giorgia Meloni nel segmento iniziale dedicato ai capi di stato e di governo è stato dimenticabile e dimenticato, e l’unico pregio riconosciuto è stato far tirare un sospiro di sollievo a chi temeva un’intemerata contro Cina o India.
Il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin era a disagio sia linguistico che politico, è tornato in Italia quando il negoziato vero e proprio è cominciato. A ogni grande paese europeo è stato affidato un dossier cruciale del vertice, mentre il nostro governo sceglieva di farsi raccontare la Cop27 al telefono.
Abbiamo presentato un nuovo Fondo sul clima, migliore di quanto fatto in passato ma comunque inferiore a impegni e promesse. Abbiamo indebolito la già fragile credibilità europea, che chiedeva agli altri la mitigazione e la rinuncia all’espansione dei combustibili fossili proprio nel momento in cui una delle sue economie più grandi annunciava il ritorno di trivelle ed estrazioni per spolpare il (gramo) patrimonio di gas dell’Adriatico.
La cosa più grave non è stata l’assenza dell’Italia, è stato il fatto che quell’assenza non si notasse né preoccupasse nessuno.
Il futuro delle Cop
Le Cop sono uno strumento insostituibile, perché unico nel panorama geopolitico globale e perché senza alternative, però stanno mostrando tutti i propri limiti: il processo annuale deve ogni anno districarsi tra egoismi nazionali, tensioni e conflitti di interesse, ed è troppo lento rispetto all’urgenza della crisi climatica in atto.
È una finestra di tempo troppo breve per prendere decisioni così importanti, e il rumore di fondo durante i vertici sta aumentando.
Non solo i lobbisti del fossile, che hanno organizzato panel su gas e petrolio senza alcuna remora, ma anche la progressiva trasformazione delle Cop stesse in una sorta di Expo del clima, nel quale sta diventando più facile stringere affari e fare pubbliche relazioni che prendere decisioni.
Le Cop sono diventate più adatte ai bisogni dell’economia che a quelli della politica. L’unico modo per salvare lo strumento che ci ha dato l’accordo di Parigi e una possibilità di sopravvivenza a lungo termine è ammetterne i limiti e innovarle.
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