La Corte internazionale di giustizia è chiamata per la prima volta nella storia a occuparsi della crisi climatica. Potenzialmente con effetti molto rilevanti
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Novantuno testimonianze scritte, 99 interventi orali, di paesi e organizzazioni non governative, con due settimane di udienze, l’attenzione e la trepidazione degli attivisti e degli scienziati di tutto il mondo. Le udienze della Corte internazionale di giustizia dell’Aia, che per la prima volta nella sua storia si sta occupando di clima, si stanno trasformando in una piccola, imprevista Cop, i cui effetti potrebbero essere anche più significativi di quelli delle ultime conferenze sul clima.
A L’Aia, su impulso di una nazione del Pacifico come Vanuatu, vengono di nuovo discussi i limiti e il valore degli accordi internazionali sul clima, così come le responsabilità e gli obblighi dei paesi inquinanti. Vanuatu aveva scelto di impegnarsi a portare il caso all’Onu per ottenere il parere della Corte su impulso di un gruppo di studenti di diritto internazionale dell’università del Pacifico Meridionale, che si trova a Fiji.
In un lungo domino di ostinazione e abilità politica, un’idea nata in quelle aule universitarie così remote, coltivata da persone senza nessun vero potere politico, ha spinto i paesi a scoprire le carte su quali considerano essere i loro obblighi sulla crisi climatica.
Il parere della Corte internazionale di giustizia arriverà probabilmente all’inizio del 2025, non sarà legalmente vincolante, ma potrebbe avere un peso politico, giuridico e simbolico enorme. Se ritenesse i paesi più inquinanti legalmente responsabili per le conseguenze delle loro emissioni storiche, potrebbe cambiare il corso delle prossime conferenze sul clima e diventerebbe un elemento di giurisprudenza decisivo per le future cause climatiche.
La questione
Nello specifico, la Corte è chiamata a rispondere a due domande. La prima è quali sono secondo il diritto internazionale gli obblighi dei paesi nel proteggere la comunità mondiale dai cambiamenti climatici? E quali dovrebbero essere le conseguenze legali quando il mancato rispetto di questi obblighi danneggia il futuro, la vita, la salute e l’accesso ai diritti umani dei paesi più vulnerabili?
Il tema è allo stesso tempo complesso ed emotivo, sul fronte delle vittime delle crisi climatica forse la testimonianza più toccante è stata di Grenada, il paese da dove viene l’attuale segretario dell’agenzia Onu sul clima Simon Stiell. A Grenada nemmeno i morti sono al sicuro dalla crisi climatica, l’innalzamento del livello del mare sull’isola di Carriacou sta divorando l’antico cimitero di Tibeau. Come ha spiegato il primo ministro di Grenada, Dick Mitchell. «Lì riposano i nostri antenati, ed è sostanzialmente finito tutto nell’oceano. Da un punto di vista spirituale, anche i nostri morti ora sono vittime di clima, e questo ha un effetto devastante sull’interiorità dei miei concittadini».
L’udienza degli Usa
Sul fronte giuridico, l’udienza più discussa finora è stata quella Usa. La rappresentate del dipartimento di stato Margaret Taylor ha fatto una difesa dell’accordo di Parigi del 2015 e della convenzione Onu sul clima del 1992, dicendo che sono i migliori strumenti che abbiamo per combattere la crisi climatica, senza però sottolineare che tra poche settimane proprio gli Usa potrebbero diventare il primo paese a uscire due volte dall’accordo di Parigi e che l’amministrazione Trump valuterà anche una possibile uscita dalla convenzione.
Secondo Taylor, questa architettura legale «rappresenta la più chiara, specifica e aggiornata espressione del consenso dei paesi nella lotta al cambiamento climatico». Secondo gli Usa ogni altro obbligo legale deve essere ricondotto ai limiti di questi due trattati. Non c’è lotta ai cambiamenti climatici più ambiziosa di quella prevista dall’accordo di Parigi.
Questo intervento è stato accolto male dai promotori della causa, che ci hanno visto un tentativo di nascondersi dietro i formalismi dell’accordo di Parigi. «Gli Usa portano avanti l’approccio business as usual e fanno di tutto per minimizzare le loro responsabilità», ha detto l’associazione di studenti del Pacifico. Gli Usa si sono trovati dallo stesso lato della barricata legale di Australia, Cina, Arabia Saudita, che hanno tutte sostenuto una posizione simile: non servono altri strumenti di responsabilità legale, basta l’accordo di Parigi, che però i sauditi hanno provato in ogni modo a minare alle Cop e gli Usa abbandoneranno presto.
Per dirla con l’inviato per il clima di Vanuatu Ralph Regenvanu, «I trattati come l’accordo di Parigi sono essenziali, ma non possono diventare un velo per l’inazione o un sostituto per la responsabilità legale dei paesi».
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